Avendo un marito italiano e dei figli maschi, la mia vita quotidiana è immersa nel calcio. E per immersa intendo davvero letteralmente: qui si segue il campionato italiano su tutte le piattaforme possibili – da Sky a Dazn – ma si vedono anche i campionati inglesi, spagnoli, tedeschi. Tutte le coppe europee sono nostre, sia che vincano squadre italiane che non, le competizioni si vedono fino alla finale. Per non parlare, ovviamente, dei mondiali.

Ma questa è solo una parte del calcio con cui sono a contatto: c’è ovviamente la playstation con Fifa aggiornato all’ultima stagione, vari videogiochi di calcio di ogni tipo. Ci sono i libri sul calcio – l’editoria ne sforna a decine – ché i bambini leggono più volentieri una storia che parli di calcio. E poi c’è il calcio giocato, forse l’aspetto più impegnativo: passi il calcetto del marito, una o due volte a settimana nelle quali si smaterializza fino a tardi, ma il problema è quello dei bambini. Il grande in particolare, nove anni appena compiuti, gioca già da tempo – come tutti i suoi coetanei – in questi club del calcio che qui a Roma sono tantissimi, anche perché si tratta di un business pazzesco. Tre volte a settimana, più una serie infinita di tornei locali e meno locali, che praticamente ormai costringono la famiglia a far dipendere qualsiasi tipo di scelta dal messaggio degli allenatori nel quale si annunciano gli orari dell’ennesima partita.

Per tutto questo io, il calcio, lo odio. Non lo odio come sport, anzi lo trovo uno sport bellissimo, uno sport democratico perché possono giocare alti e bassi, magri e meno magri, e basta un pallone. Lo odio perché la quantità massiccia, anzi patologica, che ci viene inflitta in Italia lo rende un insopportabile pensiero unico. Dove sono gli altri sport? Perché non ci fanno mai vedere la ginnastica ritmica, le finali di pallavolo, il nuoto? È come se, per fare un esempio semplice, fossimo costretti a mangiare pasta al pomodoro colazione pranzo e cena. Per quanto buona, diventa insopportabile.

Ma non c’è solo questo. Avendo dei bambini, mi inquieta il modello culturale che il calcio diffonde: una realtà dove assurdamente la gente guadagna milioni di euro senza che nessuno abbia ancora capito il perché, dove girano interessi appunto milionari. Mio figlio è ossessionato dai calciatori, parla solo di calcio, vuole solo – altra conseguenza – le scarpe con la marca indossata dai calciatori. E per quanto come madre abbia sempre cercato di contrastare questa tendenza, posso dire di aver fallito: troppe le pressioni esterne, troppi i modelli imperanti.

In questa totale e sconvolgente assenza di pluralismo, c’è poi un altro aspetto che rende il calcio non solo povero ma un vero cattivo modello. Il fatto che sia praticamente monogenere. Il calcio che si vede è fatto solo di maschi: maschi allenatori, maschi dirigenti, maschi che giocano. Questo produce di conseguenza nei bambini la convinzione che il calcio sia solo per i maschi, così che nelle squadre di calcio infantili praticamente non ci sono bambine, che vengono dirottate verso la ginnastica artistica o la danza quando magari avrebbero voluto tirare due calci a un pallone, attività certamente liberatoria. Insomma, abbiamo fatto un’evoluzione nel passare alle classi miste, ma poi nello sport si ritorna esattamente come negli anni Cinquanta: maschi coi maschi, femmine con le femmine. Penoso.

È per questo, e mi scuso del lungo preambolo (necessario), che sono stata molto contenta del fatto che finalmente i mondiali di calcio femminile siano approdati in tv. Sky ne ha fatto furbescamente un evento, e ha fatto bene, la Rai pure per fortuna trasmetterà l’evento. Si tratta di qualcosa di molto più importante di quanto non possa apparire: perché finalmente – finalmente! – si vedrà una nazionale di calcio fatta anche di donne. Si vedranno donne giocare a calcio, qualcosa che può sembrare bizzarro solo a chi è abituato a vedere il mondo da un lato solo, come noi in Italia.

E per questo piazzerò mio figlio davanti alla tv a vedere questa preziosa partita (abbiamo già visto le altre), proprio come lo piazzo davanti alle Olimpiadi quando arrivano (e quanti sport meravigliosi scopriamo! E quanta tristezza che poi “spariscano” per quattro anni!). È fondamentale che veda con i suoi occhi donne che giocano a calcio, che si spezzi nella sua testa quello stereotipo che associa il calcio ai maschi, così come tutù e scarpette alle femmine: sembra banale, ma è così che succede ancora oggi, ovunque, in Italia.

Ed è fondamentale che anche le bambine vedano donne giocare, perché magari avranno il coraggio di esprimere un desiderio. Soprattutto, potranno decidere di scegliere uno sport dove l’aggressività si può esprimere, anche se attraverso le regole, cosa utilissima visto che ancora alle bambine si insegna che essere donna significa soprattutto contenersi ed essere aggraziata, mentre gli uomini hanno diritto di sfogarsi come credono. Mio figlio, comunque, sembra molto interessato e appassionato al calcio femminile. Certo, con tipico disprezzo da bambino cresciuto col calcio italiano ha detto: “Mmm… però sono un po’ scarsette… ma tanto giocano scarsette contro scarsette, dunque va bene”. Ma dopo, quando gli ho chiesto perché fosse importante che si vedessero i mondiali femminili, ha detto quello che era giusto e ovvio dire: “Mamma, una nazione è fatta sia di uomini che di donne. Dunque, ci deve essere una nazionale femminile e noi la dobbiamo vedere”. Se lo capiscono loro, dovrebbero a maggior ragione capirlo anche gli adulti.

Ps. Piccolo aggiornamento post partita. Mio figlio si è divertito tantissimo, sentirlo urlare “Sììì Bonanseaaaa”, oppure “che dribbling” è stato veramente bello. Quando poi le ragazze guadagneranno come i maschi, anche io – prometto – esulterò con lui.

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Post aggiornato il 9 giugno alle ore 15.15

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