Una trentina di persone, tutti parenti delle vittime, hanno chiesto di costituirsi parte civile nel processo sul naufragio dell’ottobre del 2013, quando una barca partita dalla Libia con a bordo migranti che scappavano dalla guerra in Siria si rovesciò in mare: morirono 268 persone, tra cui 60 bambini. L’accusa è che ci furono ritardi nei soccorsi: la Procura di Roma contesta al comandante responsabile della sala operativa della Guardia Costiera, Leopoldo Manna, e al comandante della sala operativa della squadra navale della Marina, Luca Licciardi, i reati di rifiuto d’atti d’ufficio e omicidio colposo.
Il gup di Roma, Bernadette Nicotra, si è riservata di decidere entro la prossima udienza fissata per fine giugno sulla richiesta di costituirsi parte civile presentata dai parenti delle vittime e da due associazioni: “A buon diritto” e l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). In caso di ammissione delle istanze, le parti civili hanno preannunciato che citeranno come responsabili civili il ministero della Difesa in relazione alla posizione di Licciardi e il ministero delle Infrastrutture per quella di Manna.
La procura aveva inizialmente sollecitato l’archiviazione dell’inchiesta ritenendo che nessun illecito penalmente rilevante si potesse configurare dietro i presunti ritardi legati al naufragio. Diversa la lettura dei fatti da parte del gip che nel novembre 2017 rifiutò l’archiviazione, sostenendo che ci fu un “buco” di circa 45 minuti nella decisione di intervento delle autorità italiane, così come sollecitato dai maltesi alla luce dell’intervenuto pericolo imminente di naufragio, che potrebbe essere stato determinante per la tragedia. “Le leggi del mare, le convenzioni internazionali, il codice della navigazione e il codice penale imponevano – scriveva il gip nell’ordinanza – di intervenire tempestivamente in soccorso dei naufraghi che si trovavano palesemente in situazione di pericolo”.
Secondo quanto ricostruito da L’Espresso nella primavera del 2017, un pattugliatore della Marina italiana in quel pomeriggio dell’11 ottobre 2013 era a sole 10 miglia dal barcone che stava affondando a 61 miglia da Lampedusa. Il peschereccio partito dalla Libia con 480 persone era stato colpito da raffiche di mitra. Il settimanale aveva a disposizione gli audio delle chiamate: la prima fu di un medico siriano a bordo che alle 12.39 telefonò alla sala operativa della Guardia costiera italiana. L’Espresso sostiene che la barca fu abbandonata a se stessa per cinque ore, nonostante le ripetute richieste d’aiuto.