Diritti

C’era una volta un clandestino, storia di Eltjon Bida: dal barcone al primo romanzo. “Ma ora l’Italia è arrabbiata”

Partito dall'Albania per curarsi il novello scrittore ha 41 anni, una moglie e due figli. Può dire di avercela fatto, ma non smette di sognare, e di rischiare: da poco ha lasciato il posto di receptionist in un albergo di Milano, dove lavorava da più di dieci anni, per dedicarsi alla scrittura: "Ho iniziato a leggere un libro dietro l’altro e ho capito che avrei dovuto scrivere la mia storia"

Era il 9 febbraio del 1991. Il crollo della statua di Enver Hoxha segnava l’inizio della caduta del regime comunista in Albania e dava il via alla grande fuga verso l’Italia. Fu il primo arrivo di massa di immigrati nel nostro paese: il 7 marzo in 27mila raggiunsero Brindisi, l’8 agosto il mercantile Vlora approdò a Bari con altre 20mila persone. Viaggi della speranza ai quali si affidò anche Eltjon Bida, arrivato in Italia nel 1995, a soli 17 anni. In Albania non poteva curarsi, ma soprattutto non aveva un futuro diverso dalla semplice sopravvivenza. E così anche lui si mise su un gommone, “con il terrore di finire sotto l’acqua come un topo, se arriva un’onda alta”, racconta al FattoQuotidiano.it.

Oggi, 41 anni, una moglie e due figli, può dire di avercela fatto, ma non smette di sognare, e di rischiare: da poco ha lasciato il posto di receptionist in un albergo di Milano, dove lavorava da più di dieci anni, per dedicarsi alla scrittura. E nel libro d’esordio il protagonista è lui: “C’era una volta un clandestino” è un romanzo autobiografico dove Eltjon racconta i suoi primi anni nel nostro paese, dalla paura di annegare in mare al periodo vissuto nell’illegalità, dai mesi trascorsi tra i vagoni del treno in disuso e la Caritas di Milano fino al primo lavoro, inizio della nuova vita. Un futuro che augura anche a chi oggi attraversa l’Africa e il Mediterraneo, “perché l’integrazione è una ricchezza e va agevolata. Ma rispetto a 25 anni fa, questo paese è più arrabbiato. Forse gli italiani sono diventati un po’ razzisti”.

Eltjon è partito da Bashkim, un paesino di 600 abitanti in provincia di Fier. In famiglia lavoravano, ma non bastava: “I miei genitori erano tra i pochi ad avere un mestiere non legato alla terra: mio padre insegnante e mia madre infermiera, ma si guadagnava pochissimo, duemila lire al giorno, mentre i prezzi erano altissimi perché l’Albania importava tutto”. L’unico modo per trovare velocemente del denaro era vendere gli animali e la poca terra che quasi tutto possedevano. Ed è quello che fa anche il padre di Eltjon, perché suo figlio deve curarsi: “Avevo un calcolo renale, ma i medici delle cliniche private chiedevano cifre altissime anche solo per visitarmi. La lista d’attesa negli ospedali statali invece era di un anno”. Con quel tesoretto cerca di partire, la prima volta imbarcandosi su una nave per Brindisi: paga un milione e 200mila lire per un permesso di soggiorno e un passaporto falso, ma una spia parla e arrivato in Italia viene scoperto e rimandato indietro. A quel punto decide di affidarsi agli scafisti e salire su un gommone: partivano continuamente, a volte lo stesso faceva addirittura due giri in una notte, se il mare era abbastanza calmo. “Eravamo in 26 su un gommone per 6, schiacciati l’uno contro l’altro. Prima hai in testa solo la tua nuova vita in Italia, ma quando sei in mezzo al mare ti chiedi chi te l’ha fatto fare: non vedi la terra, basta un’onda grande e tu affoghi”.

Eltjon raggiunge Pescara, dove c’è un amico di famiglia che lo aiuta: vitto, alloggio e 600mila lire per lavorare nei campi. “A me andava più che bene. Ero tranquillo anche se irregolare, perché stavo in campagna e nessuno mi dava fastidio. Lavoravo e mi ero convinto che così mi sarei conquistato un posto in Italia”. Dopo il primo mese, ricominciano le coliche renali: “Ero a pezzi e questa famiglia mi ha aiutato mandandomi in un ospedale privato e anticipando quello che c’era da pagare”. Grazie ad una sanatoria ottiene il permesso di soggiorno, ma è costretto ad abbandonare la nuova sistemazione a causa del fratello, che seguendo il suo esempio era partito con dei documenti falsi per Brindisi: fermato anche lui, al momento del rimpatrio era scappato e tutti lo credevano morto. Eltjon riesce a ritrovarlo a Milano e da quel momento inizia un periodo difficile: “Lui viveva tra i vagoni dei treni abbandonati e la Caritas e anche io ho iniziato a farlo, perché non volevo lasciarlo. Ma cercavo di spingerlo a fare qualcosa per integrarsi e uscire da quello stato, perché io volevo una vita onesta. L’unica cosa illegale che ho fatto, una volta arrivato in Italia, è stato entrare una volta senza biglietto a San Siro”, ricorda con ironia.

Finalmente, dopo diversi mesi, Eltjon trova lavoro come venditore porta a porta. Qua inizia la sua nuova vita e finisce il libro, ma il secondo volume è già in cantiere e conterrà la parte migliore del sogno italiano: frequentando una scuola serale ottiene un diploma che lo porterà a fare il receptionist in un albergo di Milano per 13 anni. È il lavoro che rappresenta il salto di qualità, ma ancora non gli basta: “Anche grazie alla spinta di mia moglie, conosciuta a scuola, ho iniziato a leggere un libro dietro l’altro e ho capito che avrei dovuto scrivere la mia storia”. Parte del ricavato del romanzo andrà alla Caritas, che per diversi mesi è stata la casa di Eltjon a Milano. E questo, nei suoi piani, è solo l’inizio: oltre al secondo capitolo dell’autobiografia, sta già pensando a una raccolta di aneddoti vissuti durante i tanti anni di lavoro negli alberghi di Milano. “Voglio provare a far diventare la scrittura un lavoro. So che è difficile, ma per ora sono riuscito a realizzare tutto quello che volevo in Italia, e ci proverò anche con questa avventura”.

Impossibile non chiedergli cosa pensa dei migranti di oggi: “Ogni volta che vedo i barconi del Mediterraneo ripenso al mio viaggio, che è stato molto meno difficile e pericoloso. Mi dispiace per come se ne parla, perché come era per noi, anche la stragrande maggioranza di loro ha buone intenzioni. È giusto essere duri con chi non sta alle regole, ma sono più lontani alle abitudini e agli usi italiani e devono essere aiutati a integrarsi”. E lui, che ha vissuto questa situazione da entrambe le parti, non ha dubbi: “Quando sono arrivato qua, gli albanesi non erano ben visti. Se ne parlava male, anche giustamente a volte, perché tanti non cercavano davvero di lavorare, ma comunque non ho mai pensato che gli italiani fossero razzisti. Ora però c’è più rabbia, le persone si sono incattivite. Un po’ la televisione, un po’ la propaganda politica, hanno creato un clima di odio che io non ricordo quando sono arrivato. Gli italiani adesso ce l’hanno di più con gli stranieri”.

Foto di Damiano Tasco