Pensavo di essere immune. Pensavo di essere al di sopra di tutti e di tutto e quando mi chiedevano “ma tu non hai paura a parlare di Iran?”, spesso con aria di sfida e saccenza rispondevo “E perché dovrei?”. Non ho avuto paura nella giungla del Borneo tra i tagliatori di teste, perché dovrei averne ora? E invece sbagliavo. Quanto sbagliavo! Il pericolo era molto più vicino della foresta indonesiana. Il pericolo per me oggi potrebbe essere anche qui nella mia terra e oggi ho paura. Dicono che ammettere le proprie fragilità sia da deboli, che non bisognerebbe mai mostrare agli altri e soprattutto al nemico la propria remissività, ma non sono capace, proprio non ci riesco.

Negli ultimi giorni sono molti gli articoli apparsi sulla mia vicenda al Festival della Comunicazione ControSenso, un evento in collaborazione con l’Odg dell’Abruzzo che si svolge annualmente a Tagliacozzo. La prima settimana di giugno sono stata invitata a parlare come relatrice al panel dal titolo “Tutela dei diritti umani: dal genocidio in Rwanda a oggi”. La storia inizia qualche giorno fa, quando alla fine della mia relazione durante le foto di rito ho mostrato la foto di Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa iraniana condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate, della quale mi sto occupando ormai di diversi mesi.

Uno degli scatti l’ho postato sulla mia pagina Facebook, che è aperta a tutti, e ho successivamente ricevuto un messaggio intimidatorio da parte di un ex diplomatico dell’ambasciata iraniana a Roma. La frase volgare e offensiva in lingua farsi e inglese dice “Hoshhhh be carefull its non of your business”, che tradotto sta per “Bloccati scema, stai attenta perché questi non sono affari tuoi”.

Diciamo che occupandomi da anni di Iran e facendo la giornalista tutto quello che ruota intorno a questo paese è in qualche modo un po’ sempre “affare mio”. Lo diventa ancora di più quando si tratta di situazioni che coinvolgono in particolare donne o persone che in quel paese non possono esprimere il loro pensiero per via di una ferrea censura in vigore dalla Rivoluzione Islamica del 1979.

Il caso dell’avvocatessa Sotoudeh, arrestata perché ha difeso i diritti delle donne in Iran, ha bisogno non solo della mia voce, ma anche di quella di tutte quelle persone che hanno la possibilità di divulgare le violazioni che avvengono in quel paese, di cui altrimenti noi non sapremmo nulla. Il messaggio minatorio ricevuto è gravissimo non solo in quanto rivolto nei confronti di una giornalista (donna tra l’altro), non solo perché proviene da un altro giornalista ex diplomatico, ma in quanto viene mostrata pubblicamente la chiara volontà di voler mettere a tacere il caso Sotoudeh come tanti altri che sono poco chiari in Iran.

In quest’atmosfera di paura che oggi mi avvolge mi tornano alla mente tanti episodi ai quali non avevo mai dato importanza. Le ore e le notti trascorse all’aeroporto Imam Khomeini di Tehran, quando venivo trattenuta al controllo passaporto pur avendo tutti i permessi regolari; oppure quando mi sentivo osservata in più luoghi della città, o quando incontravo lo sguardo di una persona in una zona, per incrociarlo dopo poche ore in un’altra parte della città senza che nessuno sapesse i dettagli dei miei movimenti. Quando questi episodi si verificano non una, ma più volte in poco tempo, è lecito pensare forse che non siano solo coincidenze. Quella paura che io credevo di poter provare solo in Iran oggi la ritrovo anche nella mia amata Roma. Non sentirmi più al sicuro nella mia città, tra la mia gente, non per i soliti motivi di delinquenza comune ma per difendere con le mie idee e con il mio lavoro i sacrosanti diritti che ogni essere umano dovrebbe vedersi tutelare in ogni angolo del mondo, mi fa provare un fortissimo senso di scoramento.

E non solo: ciò che mi addolora di più è che questa minaccia concreta, e non sono paventata, provenga proprio da parte di un iraniano, da parte di chi appartiene a quella terra e quel popolo che io amo fortemente. Per scelta ho voluto abitare in quei luoghi per anni per viverli appieno, mescolandomi alla gente, perché i miei studi e la mia passione per l’antropologia mi spingevano ad un contatto diretto e stretto con le popolazioni dei territori in cui ho abitato. E così ho scoperto un popolo meraviglioso, quello iraniano, ricco di storia e cultura e di una profondissima spiritualità. Conoscendolo e amandolo così tanto, è forse per questo che ho affrontato mille battaglie per difenderlo, per incoraggiarlo nella sua sua difficile arrampicata verso la libertà individuale e sociale, denunciandone le brutture di cui esso stesso è vittima.

Per questo amore, oltre alla deontologia della mia professione, pur provando un fortissimo senso di paura, non posso esimermi dal raccontare, avendo fonti interne certe, quel che accade in Iran, continuando a denunciarne le orribili pratiche liberticide. Per anni sono stata accusata di essere una fiancheggiatrice del regime, quando ho cercato per lungo tempo di avvicinarmi anche all’intoccabile élite politica e religiosa di questo paese per conoscerla da vicino, per capirla, per intervistarne i membri e denunciarne le brutture; forse per questo qualcuno ha pensato fossero “amici miei”. Non sono amici, non lo sono mai stati e la minaccia chiara e diretta ne è la conferma.

Unico grande conforto in questi giorni pieni di ombre scure per me è la grande e tanta solidarietà ricevuta non solo dai miei colleghi ma anche dai vari organi e sindacati di stampa, come la Fnsi, l’Usigrai, l’associazione Giulia Giornaliste solo per citarne alcune. La solidarietà è arrivata anche da molta gente comune che, con la sua vicinanza, mi sta esortando a non mollare e a non farmi mettere all’angolo da questa paura che vorrebbe indurmi a bloccare intenti e iniziative sul tema, ma che mi auguro non abbia il sopravvento.

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