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Chernobyl, la serie Sky che ricostruisce il disastro nucleare lascia davvero senza fiato

L’angosciante, cupa, devastante rappresentazione filmica di una delle più ingenti catastrofi nucleari della storia recente è una sorta di unico piano inclinato senza via di scampo verso l’abisso della contaminazione

di Davide Turrini

Benvenuti nell’incubo radioattivo di Chernobyl. Per la miniserie Sky-Hbo è assolutamente buona la prima. L’angosciante, cupa, devastante rappresentazione filmica di una delle più ingenti catastrofi nucleari della storia recente è una sorta di unico piano inclinato senza via di scampo verso l’abisso della contaminazione e della morte per mano dell’uomo. Nel primo episodio, dopo una breve e tragica premessa spostata in avanti nel tempo a Mosca nel 1988 attraverso la confessione dello scienziato Valery Legasov (Jared Harris), torniamo subito al terrificante momento dell’esplosione datato 26 aprile 1988 a pochi chilometri da Prypiat e ad una ventina da Chernobyl, in quella che ancora era l’Ucraina sovietica. Impatto meramente visivo, quello del flash nel cielo nero notturno.

Un lampo non troppo lontano intravisto come fosse una nave aliena dalla finestra di casa di Lyudmilla (Jessie Buckley) moglie del pompiere Vasily che pochi minuti dopo accorrerà alla centrale nucleare con gli impauriti compagni per spegnere l’incendio radioattivo. Altro spazio/set che si apre subito, inutilmente austero e clamorosamente artigianale, è quello del centro di controllo della centrale da dove un arrogante e cinico Anatoly Dyatlov (Paul Ritter) – l’unico che pagherà con dieci anni di galera il disastro di Chernobyl – impartisce ordini impossibili ai colleghi di bianco vestiti come infermieri/formiche, facendoli letteralmente squagliare indirizzandoli verso un inutile monitoraggio del nocciolo del reattore andato in fiamme.

Basterebbe la decimazione tra tecnici della centrale, arrossamenti ed ematomi improvvisi su corpi e visi, per mostrare una galleria pulp dell’orrore, a raccontare l’essenza del disastro. Invece il plot si dirama subito in diverse robuste sottotrame, tra cui la ricostruzione delle responsabilità nella catena di comando della Russia comunista con riunioni in bunker sotterranei a pochi metri dal disastro; il tranquillo trantran di infermieri e medici dell’ospedale più vicino prima dell’allarme; ma soprattutto dell’impossibile attesa di parenti e amici dei lavoratori della centrale, che si assiepano nel pieno della notte su ponti e giardini all’aperto per osservare il mefitico dardeggiante Rex nucleare che produce particelle radioattive soffiandole addosso agli ignari spettatori. Ancorato culturalmente come un macigno ad uno spazio/fatto storico riconosciuto in mezzo mondo, Chernobyl propone prima di ogni possibile contenuto “alto” e morale (la forma e l’elaborazione delle bugie per coprire le vere responsabilità del disastro), una ricostruzione storico-ambientale catastrofica e post-apocalittica vintage che lascia davvero senza fiato.

Come del resto la mimetica tensione performativa degli attori che oscilla tra la fascia del male, quindi della rigidità caratteriale dei burocrati, e quella del bene, ancora appena pizzicata nel primo episodio nella tentennante e abbozzata ricerca di resistenza e verità di alcuni personaggi oltre la versione ufficiale di scienziati e governanti. Evidente, infine, la compattezza formale dell’intero prodotto, dal primo dei chiaroscuri all’ultimo dei dettagli inquadrati di una classica serialità in cui domina la figura dello showrunner, qui Craig Mazin, nel creare un mood estetico generale della serie rispetto ad una modulazione narrativa e ad uno sviluppo del racconto che, peraltro, dopo 56 minuti di girato già si rintraccia fluido e coinvolgente.

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