Il Gay Pride di Roma ha segnato i 25 anni di rivendicazioni di piazza sul fronte dei diritti gay. Una ricorrenza che cade in un clima di ostilità e resistenze non nuove, ma emerse con particolare forza: basti pensare alle spinte reazionarie radicali che hanno trovato voce a margine del Congresso Mondiale della Famiglia del marzo scorso. Un esempio, la congregazione Christus Rex, secondo la quale “l’aborto è un delitto paragonabile all’omicidio”.

Rigurgiti di fronte ai quali la comunità Lgbt e i suoi sostenitori hanno risposto con un Pride partecipato da centinaia di migliaia di persone. Una partecipazione forse da record – e questa è una buona cosa – ma secondo canoni consueti di folklore provocatorio. E questa – forse, nella sue efficacia – è stata per me cosa meno buona.

Il problema non è il registro di allegra e sfacciata rivendicazione in sé, ma la sua efficacia in rapporto agli interlocutori. “Meglio una coppia di gay con lavoro senza matrimonio che una di sposati ma disoccupati”, mi disse appena qualche mese fa un amico omosessuale. Un ragionamento che ha delle falle (dai diritti di coppia ne discendono altri anche di carattere assistenziale, previdenziale etc.), ma che se fatto da un diretto interessato, la dice lunga su quale possa essere l’atteggiamento più diffuso.

La controparte non sono certo i militanti di Christus Rex, comunque granitici e inscalfibili nelle loro convinzioni, ma le persone, l’opinione pubblica avvitata intorno a emergenze quotidiane che producono chiusure culturali, rispetto a richieste non ritenute così urgenti. Un atteggiamento istintivo che in altri momenti sarebbe legittimo respingere con forza e tacciare di limitatezza culturale grave, ma che oggi – se non compreso – finisce per produrre contrapposizione netta e difficilmente recuperabile.

E qui – forse – la comunicazione del Gay Pride diventa non solo poco efficace, ma controproducente.

Intendiamoci, la provocazione, il paradigma eccessivo è strumento classico di qualsiasi rivendicazione forte, ma ci troviamo probabilmente davanti a un problema di strategia.

Le vessazioni nell’ambiente scolastico, le discriminazioni nel lavoro, il mancato riconoscimento di possibili ruoli genitoriali son temi che in questo momento più che di musica techno e baci lesbo, avrebbero bisogno di impegno politico. Che è quasi assente. Un esempio banale: su 900 parlamentari, quali si sono palesati come omosessuali e ne hanno fatto una militanza di rappresentatività? Quali provvedimenti sono stati proposti? Dato non pervenuto.

Quasi in solitudine la voce del sottosegretario con delega alle pari opportunità Spadafora, alla quale – a dire il vero – non fanno gran eco nemmeno i suoi compagni di Movimento. Del resto i temi in questione non fanno parte del famoso contratto di governo e, quindi – da punto di vista della maggioranza – sono destinati ad essere messi in un angolo per una intera legislatura.

Il momento è difficile e richiederebbe più militanza, più voce politica. Si tratta – lo ripeto – la critica strategica. Che però è indispensabile, proprio perché dall’altra parte resiste un atteggiamento culturale allarmante, che appare difficilmente affrontabile con lo strumento della contrapposizione. Basta leggere i commenti agli articoli della stampa on line, riguardanti proprio il Gay Pride.

Innanzitutto quelli che criticano – appunto – il corteo: “La sfilata del più grande circo del mondo”, “Non hanno rispetto per loro stessi”, “Fanno carnevale tutti i giorni”, “Basta che non si bacino in pubblico, perché non è un bell’esempio per i bambini che guardano”. E’ sconfortante che ai gay si chieda di non disturbare, di essere gay di nascosto, di non esibire simboli. Esattamente come lo si chiede agli immigrati. Se un eterosessuale provoca può passare, ma se lo fa un gay è inaccettabile.

Come a un immigrato, a un gay si chiede di considerarsi un ospite, tollerato in una società non sua, a patto che non rivendichi di farne parte alla pari di ogni altro. Il bacio pubblico tra uomo e donna, l’abbigliamento disinibito, ma riconoscibile come etero, sono come il crocifisso negli uffici pubblici: il marchio di tradizione non solo da rispettare, ma al quale non contrapporre alcunché di differente. Secondo questa vulgata, l’omosessuale deve meritarsi la tolleranza.

Tutto questo può essere considerato rivoltante, ma purtroppo è reale. E anche innanzi allo sconforto di avere fatto passi indietro, invece che avanti, va affrontato con lucidità.

“Siamo dalla parte giusta della storia” ha detto Sebastiano Secci, uno degli organizzatori del Gay Pride, alludendo alle rivendicazioni di parità e diritti civili. Giusto, ma che lo dicesse mentre alle sue spalle sfilavano giovanotti in tenuta sadomaso, ha fatto saltare il tappo a commenti come “Sì, il lato B”, oppure “buffoni senza etica”, o ancora “Non prendertela se gli altri sono normali e la natura ti ha fatto così”.

Ecco, la questione è che quando la storia è così brutta e cupa, stare dalla parte giusta e sbatterlo in faccia a chi sta dalla parte sbagliata, funziona poco. Per cambiarla, bisogna starci dentro alla storia e usarne gli strumenti. Purtroppo.

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