La vicenda del tabaccaio di Ivrea presenta risvolti di gravità che vanno perfino oltre la morte di una persona.

La storia è nota: un tabaccaio, vittima di precedenti furti, in possesso di un’arma regolarmente registrata, uccide uno dei ladri che erano entrati nel suo negozio per derubarlo. La prima versione indica che il tabaccaio avrebbe sparato durante una colluttazione con i malviventi e, anche in ragione della legge approvata recentemente, si sarebbe legittimamente difeso in stato di grave turbamento. Successivamente, alcuni rilievi indicherebbero che il tabaccaio avrebbe sparato dal proprio balcone alle spalle del ladro in fuga in strada e quindi non avrebbe agito in stato di pericolo.

Fin qui i fatti per come sono stati riportati, sui quali gli investigatori indagano e sui quali la verità non emergerà in pieno fino al termine degli accertamenti.

Ciò che è gravissimo è il fatto che – in attesa degli esiti delle indagini che chiariscano la dinamica, la volontarietà, lo stato di turbamento – ci siano state manifestazioni di piazza in solidarietà al tabaccaio e che il ministro degli Interni Matteo Salvini, a conoscenza della possibilità che il malvivente sia stato ucciso mentre fuggiva, con un colpo alle spalle, abbia dichiarato: “Io sto sempre con l’aggredito, mai con l’aggressore”.

Queste due posizioni – molto più grave quella del ministro in quanto rappresentante delle istituzioni – sono completamente sconnesse dalla polemica sulla difesa legittima, trascendono alle opinioni sul grave turbamento e sul fatto che siano spiegazione giuridicamente sufficiente alla reazione armata, per entrare in un campo del tutto diverso: qui il fattore chiave sembra essere la vendetta. In sostanza, il ministro e un po’ di popolo ritengono che a un ladro in fuga si possa eventualmente sparare alla schiena e questo significa che il ladro possa essere condannato a morte senza processo e giustiziato sommariamente dalla vittima del furto. Perché, se non per vendetta?

Poiché il nostro ordinamento giudiziario non prevede la pena di morte neppure per reati assai più gravi del furto, i comportamenti dei manifestanti e del ministro vanno secondo me considerati eversivi. Eversivi e incostituzionali, in quanto la Costituzione italiana, all’art. 27, recita: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.

A questo punto non si tratta più di discutere sul come la proprietà privata vada difesa, di esprimere opinioni sull’opportunità di agevolare o meno il possesso di armi, di confrontarsi sulla necessità di prevenire i crimini – dovrebbe farlo il ministero degli Interni – anziché reprimerli, di chiedere che i rei accertati di reati, magari plurimi, non circolino liberamente per compierne altri – e qui un esame di coscienza dovrebbero farlo anche i magistrati – ma di confrontarsi su un quesito semplice da comprendere ma estremamente sensibile per la vita di una nazione: siete favorevoli all’introduzione della pena di morte per il reato di furto, quando il malvivente sia colto in flagrante?

E magari se ne potrebbe aggiungere un altro in subordine: siete d’accordo che l’esecuzione della pena capitale sia affidata alla vittima del furto?

Possono sembrare quesiti estremi e li pongo in modo anche provocatorio, però vanno dritto alla sostanza della cosa: l’uccidere un ladro che fugge non può essere definito difendersi e quindi se viene giustificato lo deve essere con altre motivazioni.

Su questo chi manifesta ed esterna in favore di un possibile omicida dovrebbe concedersi un attimo di riflessione e domandarsi se nel profondo risponde di sì alle due domande di cui sopra; in tal caso dovrebbe anche battersi coerentemente affinché venga cambiata la Costituzione e reintrodotta la pena di morte allargandola al reato di furto. Purtroppo devo pessimisticamente ritenere che ci saranno masse disponibili a questo rovesciamento di princìpi, che ci riporterebbe indietro di secoli.

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