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Ebola, primo contagio fuori dalla RD del Congo: morto bambino di 5 anni in Uganda. Msf: “L’epidemia ha accelerato”

IL caso è stato reso pubblico attraverso l'account Twitter del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che riprende un comunicato del Ministero della Salute di Kampala. Il fratellino e la nonna del piccolo deceduto sono risultati positivi al test

La prima vittima di ebola oltre i confini della Repubblica Democratica del Congo è un bambino di cinque anni. Il piccolo è morto la scorsa notte in Uganda, come comunica l’account Twitter del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che riprende un comunicato del Ministero della Salute di Kampala. Il fratellino e la nonna del piccolo deceduto sono risultati positivi al test e si trovano ora in isolamento nella struttura sanitaria di Bwera, poco oltre il confine: si tratta di una famiglia congolese che il 10 giugno aveva varcato il confine.

Nonostante da tempo ci si aspettasse che l’epidemia superasse i confini del Paese, ora la realtà ha fatto scattare l’allarme. Il ministero della Salute ugandese invita alla calma, ma nel contempo chiede di cancellare qualsiasi evento che preveda assembramenti e raduni, compresi matrimoni e funerali. Domanda di evitare strette di mano e abbracci, di segnalare tempestivamente qualunque caso sospetto e di sospendere i piccoli commerci transfrontalieri con la Rd Congo.

L’area colpita dalla devastante epidemia di ebola si trova infatti nel Nord Kivu, regione nell’est del Congo, al confine con l’Uganda. Se il precedente focolaio, che aveva interessato lo scorso anno la regione nord occidentale dell’Equateur, era stato dichiarato ufficialmente estinto a luglio, questa nuova epidemia, generata da un ceppo diverso del virus ebola zaire, il più letale, non accenna a placarsi. Vani per ora tutti gli sforzi messi in campo. Il primo caso era stato registrato il 1 agosto 2018, e da allora i numeri ufficiali aggiornati all’11 giugno parlano di 2071 casi, 1396 morti e 575 guarigioni.

Non solo non si riesce a tenere a bada il virus, ma anzi questo si sta espandendo e si registrano nuovi casi su un’area più estesa rispetto al focolaio iniziale. L’epicentro attualmente è nelle città di Butembo e Katwa (circa un milione di abitanti insieme), ma ha già raggiunto la provincia dell’Ituri. Come se non bastasse, zone come quella di Mabalako, dove l’epidemia era iniziata ma non si registravano più casi da diversi mesi, hanno visto riaccendersi focolai della malattia.

Oltre al propagarsi del virus, a più riprese si sono registrati veri e propri assalti ai centri sanitari predisposti per far fronte all’emergenza e attacchi mirati a operatori sanitari, alcuni dei quali rimasti uccisi.

A cosa è dovuta una tale difficoltà nell’arginare il virus e tanta ostilità da parte della popolazione congolese, Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto a Francesco Segoni, coordinatore della comunicazione per l’emergenza ebola per Medici Senza Frontiere. “C’è senza dubbio un problema di relazione fra gli operatori sanitari che si occupano dell’epidemia e la popolazione. Si tratta di un problema di accettazione, per varie ragioni, che vanno ben spiegate e comprese. Anzitutto, pur trattandosi della decima epidemia in Rd Congo, mai si era verificata in questa regione, la cui popolazione dunque non conosceva il virus. E se già è difficile per chi si informa capire correttamente cosa sia ebola, per via delle troppe concezioni sbagliate in circolazione, figuriamoci cosa può accadere nelle aree rurali e con bassa scolarità davanti a un virus altamente mortale, che fa paura e genera miti e superstizioni di varia natura.”

“Secondo – continua Segoni -, la risposta a questo tipo di epidemia è un elemento di ulteriore confusione. I centri di trattamento per ebola sono grosse strutture che spuntano improvvisamente, in zone isolate, con personale che indossa tute protettive che coprono completamente il corpo e il volto, un aspetto che intimidisce. Inoltre, nella fase iniziale, prima che si mettano in atto le cure adeguate, la maggior parte dei malati che entrano in questi centri non ne esce e la gente, vedendo ciò, preferisce a quel punto morire a casa sua, circondato dall’affetto dei suoi cari.”

Il responsabile comunicazione di Msf continua poi spiegando che “nel rispondere all’epidemia sono stati commessi diversi errori. La popolazione non è stata abbastanza coinvolta, ci si è presentati in maniera distaccata. Immaginate cosa può comportare in un piccolo villaggio lo ‘sbarco’ di strutture imponenti, con enormi jeep, tra l’altro spesso scortate dalle forze dell’ordine, perché questa è una zona anche di conflitto armato da 25 anni. Poi gira voce che sia tutto un business. Non solo. Per 25 anni, con la popolazione falcidiata da scontri armati e crisi sanitarie per malaria, colera, morbillo, malnutrizione, non si è mai vista una mobilitazione di questo genere, né da parte del personale nazionale che da quello internazionale. La popolazione ora è sospettosa, dice: ‘Dove eravate quando morivamo di mille altre malattie? Se vi stessimo a cuore davvero, sareste venuti anche prima’”.

Infine, questa zona è vicina all’opposizione. A fine dicembre, il Congo è finalmente andato alle urne, dopo due anni di attesa. Ma non in questa zona, dove il voto è stato rinviato proprio a causa di ebola. La gente ha letto questa scelta come una strumentalizzazione politica del virus. “Ci sono poi anche ragioni pratiche – conclude Segoni –: i gruppi armati che operano nella zona non collaborano, ci sono interessi importanti, gruppi di pressione locali che generano tensione per crearsi spazio. Tutto questo contribuisce a vari livelli a rendere poco efficace finora la risposta al virus”.

Rimane da capire, però, quali siano, in tali condizioni, le migliori strategie da adottare per assicurare il livello più alto possibile di assistenza e di controllo della malattia. “Anzitutto, ascoltare la popolazione. Ad esempio, noi di Msf da qualche mese abbiamo adottato un approccio diverso, prendendo in considerazione le necessità sanitarie al di là di ebola. Ci siamo accorti che il sistema sanitario, a causa dell’epidemia, finisce ko. Se un malato passa da una struttura sanitaria e non viene subito isolato, il rischio di contagio costringe di fatto a chiudere il centro per decontaminarlo, privando la gente di cure. Stiamo sostenendo le strutture sanitarie della zona perché siano in grado di gestire eventuali casi, identificandoli al più presto e quindi da un lato aumentando la possibilità di guarigione dei singoli, dall’altro salvaguardando l’attività sanitaria complessiva.”

Altra strategia fondamentale, secondo il responsabile di Msf, è la corretta informazione, insieme alla possibilità di scelta: “Non è semplice identificare i malati, poiché i sintomi (vomito, febbre, diarrea) possono esser dovuti ad altre cause. Oltre l’80% dei casi sospetti con ricovero coatto in realtà non avevano ebola e dunque la gente non accetta più un ricovero preventivo. È meglio allora lasciare loro la scelta e provare a persuaderli, piuttosto che rischiare che il malato resti nascosto in casa, col rischio di ulteriori contagi.”

Un cambio di marcia nella lotta all’epidemia che si sta espandendo tra la popolazione dell’Africa centrale sarebbe rappresentato dalla disponibilità di un vaccino pienamente in grado di sconfiggere il virus. “Il vaccino che viene utilizzato non è ancora omologato, ma secondo gli studi dell’Oms dimostra un buon livello di efficacia sia nel ridurre il contagio che nel proteggere dagli effetti letali in caso di contaminazione. Ad oggi, il personale sanitario in prima linea è vaccinato, ma le dosi disponibili sono limitate, quindi ancora non è possibile un suo uso estensivo. Esiste poi un altro vaccino ancora non approvato. Se ne discute a livello di ministeri e Oms, cercando di approntare altre strategie. Ma intanto, l’epidemia non si ferma. Anzi. Se nei primi sette mesi, da agosto a marzo, abbiamo avuto un migliaio di casi, negli ultimi tre mesi, da marzo a oggi, altri mille. La rapidità di propagazione è aumentata rapidamente. Fino a marzo era normale avere venti casi alla settimana, ma da marzo ne registriamo venti al giorno. L’epidemia ha accelerato. Non solo. Oggi la maggioranza dei casi appaiono dal nulla, non erano stati identificati come contatti con precedenti pazienti, seguiti per 20 giorni (il periodo d’incubazione) come è prassi. No. Questi non si sa da dove vengano e come abbiano contratto il virus, siamo sempre in ritardo sulla sua diffusione e questo è l’aspetto più preoccupante oggi”.