Nel giugno 2017 la Regione Veneto prevedeva che sarebbero stati 7mila gli abitanti della Zona Rossa soggetta all’inquinamento da Pfas, nelle province di Vicenza, Padova e Verona, per i quali si sarebbe reso necessario un percorso diagnostico e terapeutico di secondo livello a causa della presenza nel sangue di sostanze perfluoroalchiliche. Si tratta della vasta area veneta interessata allo sversamento di sostanze chimiche nella falda, generato dalla industria Miteni di Trissino, che ha inquinato gli acquedotti. Quella previsione, due anni dopo, è stata clamorosamente smentita. In peggio. Perché bisogna moltiplicare il numero di due volte e mezzo se si vuole arrivare ai casi accertati di contaminazione, ma in prospettiva bisognerà moltiplicarla per almeno cinque o sei volte per arrivare al dato definitivo.
Eppure a formulare quella previsione era stato l’allora assessore competente, il leghista Luca Coletto, che oggi è sottosegretario alla Sanità. È il segno che la Regione Veneto non si aspettava risultati così preoccupanti. La dimostrazione viene dai dati contenuti nel decimo rapporto riguardante il Piano di sorveglianza sanitaria sulla popolazione esposta a Pfas appena pubblicato. Alla data del 5 giugno, su una popolazione totale di 84.852 persone interessate allo screening, gli inviti spediti sono stati 51.400, pari al 60,6 per cento. Ad oggi le visite effettuate sono state 31.400 e gli esiti completi 28.600 (55,6% degli inviti). Di questo ultimo numero ben 18.300 persone sono state prese in carico dal sistema sanitario regionale, nel cosiddetto secondo livello. Vuol dire che i Pfas nel sangue sono preoccupanti. Si tratta del 63,8 per cento rispetto agli esami completati.
Basta questa cifra per dimostrare come la previsione del 7.000 casi in totale fosse drammaticamente sbagliata per difetto. La prova sta nella Deliberazione della Giunta regionale n. 851 del 13 giugno 2017 che approvò il Secondo livello del Protocollo di screening della popolazione veneta esposta a sostanze perfluoroalchiliche e il Trattamento di soggetti con alte concentrazioni di Pfas.
L’Assessore Coletto era stato chiaro. Nel Piano “era stato previsto che gli individui con concentrazioni sieriche di Pfas superiori all’intervallo di normalità e/o alterazioni degli esami bioumorali e pressori (colesterolo, funzionalità dei reni, trigliceridi…, ndr) sarebbero stati inseriti in un percorso assistenziale di II livello per la diagnosi tempestiva di eventuali patologie croniche possibilmente correlate all’esposizione a Pfas”. Dovendo prevedere una spesa, l’assessore aveva indicato i numeri degli interventi.
“La popolazione totale coinvolta nello screening è di 84.795 soggetti (il numero è stato poi accresciuto di poche decine, ndr) , la stima dell’adesione pari al 70% è di 59.355 soggetti. Prevedendo che il 50% dei soggetti valutati (circa 60mila) abbia i Pfas elevati e che il 30% presenti alterati valori pressori e/o lipidici, la dimensione della popolazione da valutare al II livello potrebbe essere di circa 9mila individui”. Poi però Coletto aveva aggiunto: “Escludendo gli adolescenti, i giovani e coloro che sono già riconosciuti affetti da dislipidemia (variazione di quantità dei lipidi circolanti nel sangue, ndr) e/o ipertensione e che come tali sono già inseriti in percorsi clinici con la medicina di base, il numero potrebbe ridursi a circa 7mila soggetti”. Invece “per la popolazione da considerare di pertinenza della ‘medicina interna‘ (aspetti di tipo metabolico, endocrinologico, renale) si ritiene che il campione possa essere sovrapponibile, quindi 7-8mila persone”.
Altro che 7mila casi da secondo livello, adesso siamo già a 18.300, quasi duemila in più dei 16.400 di marzo (bollettino numero 9). Ma la percentuale sembra essersi ormai cristallizzata. Ogni cento persone, 64 devono essere avviate alla seconda fase.
In che cosa consiste, lo spiega la dottoressa Francesca Russo, che è a capo della Direzione prevenzione della Regione Veneto. “L’obiettivo del secondo livello è quello di individuare precocemente un fattore di rischio prima che questo possa tradursi in malattia cronica conclamata. Quindi il soggetto viene preso in carico dal sistema sanitario regionale che lo segue nel tempo”. Quante persone saranno interessate in percentuale? “Non è possibile prevederlo – risponde la dottoressa Russo – e bisogna anche considerare che, oltre all’esposizione ai Pfas, il singolo potrebbe avere delle altre condizioni di rischio”. La Regione non vuole creare allarmi, ma la statistica è anche uno strumento di previsione. E ormai ci dice che il 64 per cento degli abitanti dei 32 comuni della zona Rossa (i più popolosi sono Legnago, Lonigo, Montagnana, Cologna Veneta e Noventa Vicentina) sono contaminati. Se la percentuale viene calcolata sugli 85mila interessati agli esami, si arriva a una ipotetica cifra di 54mila persone contaminate, anche se molte di loro non lo sanno perché non si presentano a sottoporsi agli esami.
Il decimo rapporto conferma che la quasi totalità (97-99 per cento della popolazione) ha quantità rilevabili di Pfoa, Pfhxs e Pfos, la metà di Pfna. Ma quali sono i livelli di concentrazione fuori norma? Neanche la dottoressa Russo lo dice: “Per quanto riguarda il rapporto dose/risposta, quindi l’identificazione di un valore di concentrazione Pfas da considerare critico, questo non è stato definito dalla letteratura scientifica internazionale. Esiste una differenza tra l’esposizione di base che abbiamo tutti rispetto alle concentrazioni elevate di una popolazione definibile ‘iper esposta’ come quella dell’area rossa”.