Cervelli in fuga

Ricercatore a San Diego. “Sono qui perché ho risposto a un annuncio su ‘Nature’. Qui le cose sono molto più semplici e dirette”

Jacopo Baglieri, ricercatore ragusano di 36 anni, ha ottenuto il posto da post-doc alla Ucla leggendo a un annuncio sulla celebre rivista scientifica. Poi, dopo un colloquio su Skype, è volato in California. "In Italia facciamo tanta teoria, ma ci manca la pratica"

Un posto da ricercatore negli Stati Uniti trovato navigando sul sito web di una rivista scientifica. Una mail, e la chiamata per un colloquio. Impossibile? Jacopo Baglieri, ricercatore ragusano di 36 anni, ha ottenuto così il posto da post-doc alla Ucla, la prestigiosa università californiana. “È successo quasi per caso: era sera tardi e guardavo sul sito di Nature. Ho mandato il cv e una lettera di presentazione via mail, senza troppe speranze. E invece mi hanno fissato un colloquio. In Italia per ottenere un posto da ricercatore devi passare concorsi, pratiche infinite, attese, per non parlare poi dei posti già assegnati per raccomandazioni – commenta -. Ma qui le cose sono molto più semplici e dirette”.

Jacopo è negli Stati Uniti da ormai sette anni, ma all’inizio lasciare l’Italia non era suoi piani. “Volevo fare un’esperienza fuori, sì, ma poi pensavo di tornare”. Nel 2008 si è laureato in Biotecnologie del farmaco, a Milano, e ha cominciato a guardarsi intorno: “Volevo fare ricerca, ma tutti mi hanno sconsigliato di farla in Italia, perfino i colleghi del laboratorio in cui ho preparato la tesi. Allora ho cominciato a mandare curricula a tappeto in Europa“. Passa tre mesi a Londra, per perfezionare la lingua, e poi viene preso all’università di Warwick, nel Regno Unito, per il dottorato di ricerca. Per più di tre anni fa parte di un progetto europeo di ricerca, sovvenzionato dalla borsa Marie Curie: “L’Inghilterra non è un Paese facile in cui ambientarsi. Ma il progetto era ottimo, mi ha dato modo di viaggiare e di conoscere molti ricercatori europei”.

Finita l’esperienza inglese (“difficile, ma è andata via via migliorando”) torna a Ragusa per un breve periodo. Ma ormai è convinto di poter fare ricerca solo all’estero: “Praticamente sono tornato per le vacanze: le possibilità in Italia non erano migliorate, io speravo in un incremento di fondi, in un cambiamento. In quelle condizioni era difficile, così ho deciso di proseguire il mio percorso all’estero”. Gli Stati Uniti sono il posto che più lo attrae: ottimi investimenti alla ricerca, ma molta burocrazia per potere accedere. “Erano un po’ lo step successivo, ma ottenere il visto è complicato, quindi non avevo molte speranze”. Invece, arriva un’opportunità in un modo straordinariamente semplice: navigando tra gli annunci del sito della rivista Nature. Qualche giorno dopo arriva la risposta alla sua mail, quindi il colloquio via Skype e la partenza verso Los Angeles. A differenza dell’Inghilterra “che guarda gli stranieri con un po’ di diffidenza” in California Jacopo trova “una piccola Sicilia“, clima meraviglioso e persone accoglienti. E se sei italiano, dice, hai una marcia in più: “Il nostro Paese ha un fascino fortissimo qui, si illuminano quando gli dici da dove vieni”.

Nei laboratori Ucla, il suo team sperimenta possibili terapie per la distrofia muscolare. Jacopo ora si è sposato e vive a San Diego “vicino al confine dove Trump vuole costruire il muro, se mai si farà”, dice. E poi aggiunge: “Speriamo di no”. All’università il suo ambito di studio è il cancro al fegato, nel tentativo di trovare nuovi target terapeutici. “Chi fa ricerca deve essere motivato da una grande passione: è una strada competitiva e faticosa, i risultati non sempre arrivano, devi mettere in conto molto tempo e molti esperimenti falliti prima di trovare la strada giusta. Ti spinge la consapevolezza che quello che fai potrebbe veramente salvare vite”.

La ricerca è un ambiente internazionale, spiega, perciò è naturale lo scambio di idee e persone di diverse nazionalità. Ma confessa che gli piacerebbe che fosse il suo Paese a riconoscere il lavoro che fa. Jacopo è convinto che l’università italiana non abbia nulla da invidiare a quella americana, tranne per un aspetto: “Noi facciamo tanta teoria, ci manca la pratica. Studiamo bene, ma negli Stati Uniti i ragazzi vengono mandati in laboratorio praticamente da subito. Da noi si aspetta la tesi e il tirocinio“. Di base c’è un problema di finanziamenti pubblici, ma è un peccato, aggiunge, lasciar andar via tanto capitale umano: “Come si investe bene nella formazione bisognerebbe investire anche dopo, nella ricerca”.

Jacopo racconta di non avere particolare nostalgia di casa, ma di non aver ancora chiuso nessuna porta verso l’altra sponda dell’Atlantico: “A volte con mia moglie, dopo una brutta giornata, diciamo di tornare in Italia e aprire un chiosco di arancini. Scherzi a parte: ancora potrei tornare, non si mai, ma ora dovremmo essere in due a volerlo”. La maggior parte dei suoi ex colleghi universitari, racconta, sono all’estero: chi a New York, chi a Londra. “Uno addirittura l’ho rincontrato qui, nei corridoi dell’università: non sapevo nemmeno fosse a San Diego“. Qualcuno, però, resiste: “Un mio collega ricercatore all’università di Salerno ha pubblicato uno studio sul cancro al seno sulla rivista Science Advances. Un riconoscimento importante, ho pensato: vedi, c’è speranza”.