I recenti casi degli uomini simbolo della Roma sono l'esempio di un'inversione di tendenza da parte delle società di calcio, non solo italiane. Al netto delle eccezioni (Nedved alla Juve, Maldini e Boban al Milan), lontanissimi i tempi in cui i tifosi riuscivano a bloccare le cessioni dei proprio beniamini, come ad esempio gli ultras della Lazio che impedirono a Cragnotti di vendere Signori al Parma
Fare la bandiera, essere simbolo di una squadra di calcio, oggi è difficile, tremendamente difficile. Essere amati dai tifosi nella maggior parte dei casi vuol dire allo stesso tempo diventare scomodi per le società, da calciatori ma anche da allenatori. Discorso a parte poi per quelli, tanti ormai, che “l’amore dei tifosi val bene un rinnovo”. Ma i casi Totti e De Rossi sono gli ultimi esempi di bandiere che le società hanno considerato antiestetiche, da togliere al più presto dai balconi per tenerle in un ripostiglio, magari tirarle fuori all’occorrenza, magari no.
Così fu per Alex Del Piero nel 2012: l’anno prima aveva spiazzato la società della Juve quando, ormai in scadenza di contratto, aveva annunciato di essere pronto a firmare in bianco il rinnovo. Dichiarazione d’amore accolta naturalmente con giubilo dalla tifoseria e un po’ meno dalla società messa quasi con le spalle al muro e costretta al rinnovo annuale. Errore da non ripetere: a metà novembre del 2011 Andrea Agnelli infatti si era affrettato ad annunciare che questa volta il contratto del capitano non sarebbe stato rinnovato. Tante grazie e arrivederci Alex. Andò via in silenzio Pinturicchio, riuscendo a lasciare una Juve vincente però: con 3 gol in 23 presenze contribuì alla conquista del primo scudetto post Calciopoli.
È nota la sorte toccata a Totti poi: prima relegato continuamente in panchina da Spalletti pur risultando spesso decisivo da subentrato per la Roma, portando i tifosi a schierarsi apertamente contro il tecnico e poi tenuto dietro a una scrivania senza nessun potere, praticamente. Non è andata meglio a chi da Totti ha ereditato la fascia: De Rossi. In scadenza di contratto la dirigenza, sull’asse Usa-Londra, ha preferito lasciar andar via anche il centrocampista. L’annuncio è stato un fulmine a ciel sereno per i tifosi che hanno aspramente criticato la proprietà con striscioni sia a Roma che a Londra (dove c’è Baldini, consigliere della proprietà americana). Ma può capitare anche a chi va in panchina di finire nel mirino delle proprietà perché si è conquistato apertamente l’affetto dei tifosi, divenendo quasi “capopopolo” o meglio “comandante”: si guardi a Sarri, arrivato a Napoli nello scetticismo generale e che poi ha conquistato il pubblico con bel gioco, campionati costantemente a medie punti altissime, più alte anche dell’era maradoniana, e con modi “popolari” che gli hanno fruttato addirittura striscioni e cori in curva, cosa decisamente rara.
Simbiosi che però è diventata stucchevole per la società con De Laurentiis che spesso ha riservato critiche e battute al veleno al toscano nel momento più alto del “Sarrismo”: dopo la sconfitta del Napoli a Madrid agli ottavi di Champions il presidente ha messo nel mirino l’approccio alla gara e le decisioni dell’allenatore e ancora, dopo presunti torti arbitrali ricevuti in campionato e denunciati dal toscano, il massimo dirigente ha tolto ogni supporto a quella tesi, affidandosi a un laconico “Fa parte del gioco, bisognava essere più forti”. Fino all’addio al veleno e all’approdo alla Juve che leva d’ufficio i gradi del capopopolo a Sarri facendo nel contempo un favore ad Adl. Ma Napoli è un caso a parte: tranne Maradona, infatti, tutti quelli che hanno fatto breccia nel cuore dei tifosi hanno poi preso altre strade rispetto al diventare simboli azzurri. Da Ciro Ferrara a Cannavaro, andati via per dare ossigeno alle casse disastrate dell’ultimo periodo di Ferlaino, fino a Higuain e alla sua “fuga per la vittoria” verso Torino, ad Hamsik che ha preferito i milioni cinesi a una carriera quasi esclusivamente in maglia azzurra.
Tornando però alla moda di accantonare le bandiere da parte delle società, le origini si possono trovare forse in Berlusconi, che appena arrivato al Milan silurò Rivera, diventato vicepresidente dopo l’addio. Oggi però in casa rossonera si inverte la tendenza: Maldini è tornato a casa, assieme a un altro ex, Zvonimir Boban, per tentare di risollevare le sorti della squadra e aiutare la nuova proprietà. Bandiere che si rispolverano all’occorrenza, quando la popolarità è bassa: vedi Lotito e il ritorno di Di Canio in una piazza che solo pochi anni prima si era ribellata alle logiche aziendali della proprietà, scendendo in piazza, protestando contro la cessione di un idolo (Signori, ceduto al Parma) e costringendo l’allora patron Cragnotti alla retromarcia con tante scuse all’acquirente deluso, Callisto Tanzi.
Accadeva vent’anni fa: oggi risulta difficile immaginare un popolo che va in piazza per sventare una cessione, riuscendo a piegare la volontà del cedente e probabilmente anche quella del ceduto. C’è da considerare tuttavia che neppure all’estero, in tempi moderni, le bandiere vivono situazioni migliori: vedi Raul al Real Madrid, Terry al Chelsea o Gerrard a Liverpool, e da noi ci sono delle eccezioni: Nedved alla Juve o Zanetti all’Inter, profili in ogni caso più “aziendalisti” rispetto ai precedenti. Probabile in ogni caso che alla base di una trend del genere ci sia il cambiamento strutturale che ha riguardato le società di calcio divenute ormai aziende: se prima i presidenti avevano tutti gli interessi a tener vicine figure in grado di dialogare con i tifosi, di avere da loro stima e rispetto (Bruno Conti a Roma, “Totonno” Juliano a Napoli, Facchetti all’Inter, Rivera al Milan nell’immediato post ritiro) nel nuovo calcio queste caratteristiche non hanno una dimensione positiva. L’ascendente sui tifosi e la capacità di incidere sul loro umore vengono considerati evidentemente un’arma a doppio taglio: c’è un’interlocuzione privilegiata con le curve da un lato dall’altro però c’è anche la possibilità per le bandiere di usare quell’interlocuzione a proprio vantaggio, per scopi che non siano gli stessi della società o per influenzarne le scelte. Meglio farne a meno. Anche perché se prima la territorialità era tutto nel calcio oggi è un valore quasi inesistente: lo stadio non è più l’unica fonte di guadagno e le curve sono considerate quasi un fastidio. Concetti da calcio moderno che giocano a favore delle società: le vecchie bandiere escono di scena per limiti di età e le condizioni attuali, tra milioni, procuratori, procuratrici, tradimenti e mal di pancia, sono decisamente sfavorevoli a farne nascere e crescere di nuove.