Nonostante la caoticità, la strumentalità, la fumosità e il parlar d’altro di troppi commentatori dai giornaloni e dai salotti tv fotocopia a proposito del “caos procure” o “bufera sulle toghe”, quasi sempre per raggiungere fini opposti a quelli enunciati di una giustizia indipendente dalla patologica contiguità con la politica, sembrerebbe che gli italiani si siano fatti qualche idea abbastanza chiara dei rapporti che dovrebbero intercorrere tra magistratura e potere politico, stando alle risposte di un sondaggio di Antonio Noto pubblicato su QN domenica 16 giugno.

A parte la bassa percentuale di italiani che sanno cosa è il Csm (solo il 14%) che conferma, purtroppo, come la Costituzione sia tanto evocata quanto sconosciuta, il 55% ritiene che “l’intreccio tra politica e magistratura sia un’anomalia che c’è sempre stata” e analogamente il 61% ritiene che “il rapporto tra magistratura e politica” quale è emerso dalle intercettazioni di cui abbiamo preso visione in questi giorni, e cioè l’esatto contrario della fisiologica interlocuzione tra poteri dello Stato, sia semplicemente da evitare, senza se e senza ma.

Gli interpellati si esprimono in maggioranza anche per una riforma del Csm e auspicano una non meglio definita riforma della giustizia, temi che ovviamente non possono essere definiti con elementi di sufficiente chiarezza e determinazione da una rilevazione demoscopica. Infine molto puntuale e determinata è la risposta a una domanda tutt’altro che generica: “Che cosa avrebbe dovuto fare il Pd con i suoi esponenti coinvolti?”. Il 75% degli italiani e il 63% degli elettori del Pd ha risposto: “Espellerli fino alla verifica dei fatti”.

La rilevazione è successiva allo scenario, superiore all’immaginazione di qualsiasi mente perversamente machiavellica, emerso dalla riunione carbonara in un albergo della capitale nella notte del 9 maggio scorso tra cinque consiglieri del Csm e Luca Lotti, ex ministro renziano, parlamentare Pd rinviato a giudizio per favoreggiamento nell’inchiesta Consip, alla presenza dei “promotori”: il factotum “correntizio” Cosimo Ferri -anello di congiunzione imprescindibile tra politici e toghe, a lungo leader di Mi, anche lui parlamentare del Pd, già sottosegretario nei governi Letta, Renzi, Gentiloni – e Luca Palamara, pm a Roma, ex presidente dell’Anm e già componente del Csm indagato per corruzione a Perugia e per questo soggetto a intercettazione ambientale con il famigerato trojan.

In estrema sintesi i sette magistrati presenti pendono dalle labbra del politico, già plenipotenziario renziano, che detta i tempi della “pratica Roma” da chiudere entro il 29 maggio – cosa che sarebbe avvenuta se non fosse scoppiato lo scandalo -, si vanta dei contatti con il Quirinale dove si sarebbe pesantemente lagnato dell’incriminazione per Consip, dà le direttive per la nomina del procuratore generale a Firenze, “si vira su Viola” e si spedisce l’odiato procuratore capo Giuseppe Creazzo – reo di non aver avuto riguardo per i coniugi Renzi, “i nonni perseguitati” – a Reggio Calabria.

Quanto a Paolo Ielo, parimenti indigesto a Lotti per l’inchiesta Consip e a Palamara perché ha inviato a Perugia le carte contro di lui, “gli va messa paura”, come dice quest’ultimo, con l’esposto farlocco del collega Stefano Rocco Fava, di cui Lotti è perfettamente a conoscenza e particolarmente interessato, come risulta dall’intercettazione che ha per oggetto “la bomba su Ielo”.

Poi ci sono state le reazioni e le “autodifese” degli interessati, che si sono riversate in grandissima parte contro “l’uso vergognoso e dissennato dei trojan introdotti da Andrea Orlando per i reati di mafia ed estesi secondo logica, su iniziativa del M5S, alla corruzione, inseriti nel cellulare di un magistrato inquisito e non di un parlamentare”.

Lotti si è buttato sulla chiamata in correità con tutti “i moralisti senza morale” che l’hanno preceduto: “credete che io sia il primo?”. Una domanda retorica con risposta negativa, purché sia fatta salva la postilla non irrilevante che lui si è mosso non solo a “titolo personale”, ma come imputato o per conto di imputati a lui particolarmente vicini, per sfavorire e/o minacciare i titolari di quelle inchieste. Palamara invece è stato più creativo e, per svuotare di significato le sue dichiarazioni nel colloquio con Lotti riguardo alla richiesta rivolta a Giuseppe Pignatone di chiudere Consip con una bella archiviazione, ha inventato l’ipotetica dell’irrealtà al passato, in quanto la conversazione sarebbe avvenuta dopo la richiesta di rinvio a giudizio.

Si può presumere che queste solide argomentazioni avranno contribuito a fornire un quadro ancora più completo e approfondito almeno a quel 33% di intervistati che afferma di seguire in maniera continuativa la vicenda di quello viene sbrigativamente definito “scandalo toghe”, che politicamente parlando “è tutto targato Pd”, come per completezza di informazione ci ha ricordato puntualmente Marco Travaglio anche sul Fatto del 15 giugno.

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