Da un lato l’obiettivo di far crescere i bambini nella loro terra, l’Etiopia. Dall’altro il desiderio di adottare e dare protezione a chi, probabilmente, nel suo Paese ancora non può averne. Il figlio tanto desiderato da Bianca e Paolo in Italia ha già una sorella di sei anni, che vive a Rimini ed è etiope proprio come lui. Erano convinti che mancassero pochi mesi e lo avrebbero conosciuto. Poi il sogno si è interrotto. Dopo un iter burocratico partito dall’Italia, che nel 2017 sembrava volgere alle battute finali, ma che in realtà in Etiopia era arrivato solamente alla fase iniziale. Prima che fosse stabilito un abbinamento tra la coppia e un altro bambino, infatti, il Parlamento etiope ha approvato una legge che pone così tanti paletti alle adozioni internazionali, da renderla una possibilità molto più residuale rispetto al passato, arrivando di fatto ad annullarla. L’obiettivo è riuscire a crescere i propri bambini, senza che lascino la loro terra d’origine. Così è stata bloccata anche l’adozione per Bianca e Paolo e tante altre famiglie. Nonostante i loro documenti fossero già stati inviati quando il Parlamento etiope ha approvato la normativa, il 9 gennaio 2018. E nonostante una clausola di salvaguardia prevista nel testo, che consentirebbe di definire le procedure pendenti secondo la disciplina previgente. Solo che, per le autorità etiopi, gli iter avviati da queste famiglie non sono da considerarsi neppure “pendenti”.
CINQUANTA FAMIGLIE ESCLUSE – “Ci sono voluti circa 4 anni per preparare i documenti richiesti da Italia ed Etiopia e formare un fascicolo” spiega a ilfattoquotidiano.it Bianca Festa, avvocata e mamma di una bambina etiope adottata nel 2013, a otto mesi. Per quei documenti Bianca e il marito, Paolo Magotti, hanno ottenuto prima il visto dall’ambasciata etiope a Roma. Poi il fascicolo è stato inviato in Etiopia perché il ministero delle donne e dei bambini (Mowa) firmasse lo stato di abbandono del minore. A quel punto, i fascicoli possono essere depositati in tribunale con una proposta di abbinamento tra bambini e genitori adottivi, sulla quale si esprime la Corte federale. A gennaio 2018, però, la nuova legge ha bloccato tutto. Le coppie italiane con procedure pendenti in Etiopia erano cento. Tra gennaio e marzo 2018, il governo Gentiloni è riuscito a sbloccare la situazione per le prime cinquanta. “Sono state ammesse a chiudere la procedura – spiegano a ilfattoquotidiano.it da Palazzo Chigi – solo quelle per le quali la competente Corte federale di I grado etiopica aveva già autorizzato l’abbinamento”. Per un’altra cinquantina di coppie, invece, non è stata trovava una soluzione. Man mano alcune di loro hanno rinunciato, magari optando per altri Paesi. Oggi restano trentadue coppie.
VICEPRESIDENTE CAI: “UNA SITUAZIONE DIFFICILE DA SBLOCCARE” – “In realtà si tratta di famiglie il cui iter, in Etiopia, non era mai stato avviato e, di conseguenza, non sappiamo neppure se avrebbe eventualmente portato a un esito positivo. Per l’Etiopia non si tratta neppure di procedure pendenti” spiega a ilfattoquotidiano.it Laura Laera, vicepresidente della Commissione Adozioni Internazionali. Secondo la Cai quanto accaduto a queste famiglie deve essere considerata, come per il resto delle adozioni internazionali, come diretta conseguenza di una scelta politica e di una decisione del Parlamento “arrivata, tra l’altro, a conclusione di un dibattito durato anni sull’opportunità di lasciare questi bambini nel loro Paese d’origine”.
GLI APPELLI – A marzo Bianca Festa ha partecipato a un’audizione in Commissione Affari Esteri del Senato, raccontando la sua storia. “Ci sono andata perché ci guardassero. Dietro queste procedure ci sono dei nomi, dei volti, i nostri. Il mio, quello di mio marito e di mia figlia. In Etiopia ci sono centinaia di bambini come lei, abbandonati a loro stessi” spiega a ilfattoquotidiano.it. Bianca e Paolo chiedono di poter concludere la procedura adottiva con l’applicazione della normativa precedente alla luce della clausola di salvaguardia contenuta nella stessa legge etiope oggi in vigore. Insieme ad altre famiglie, hanno inviato lettere al premier Giuseppe Conte, ai ministri Matteo Salvini e Lorenzo Fontana e al primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali. Da Palazzo Chigi, confermano a ilfattoquotidiano.it: la questione è stata sollevata, oltre che attraverso le rispettive ambasciate e dalla Cai, anche dal presidente del Consiglio “nel corso di un primo incontro con il primo ministro Abiy Ahmed, l’11 ottobre scorso, in occasione di una visita ad Addis Abeba” e di uno più recente “a gennaio 2019, a Roma”. In questi giorni è invece in Etiopia la viceministra agli Affari Esteri Emanuela Del Re, che accompagnerà una delegazione di imprenditori. Sono previsti, spiega lo staff della viceministra, incontri istituzionali nel corso dei quali “la questione verrà certamente affrontata”, con la “richiesta di una deroga” per queste 32 famiglie. “I rapporti diplomatici devono essere portati avanti, cerchiamo di farlo anche noi, a maggior ragione dato che non abbiamo gli strumenti per opporci a una decisione del Parlamento etiope” aggiunge il vicepresidente della Cai, Laura Laera. Che sottolinea: “Voglio essere chiara. Queste mediazioni richiedono periodi lunghi e, ad oggi, i fatti ci dicono che una eventuale soluzione in tempi brevi è improbabile”.
L’IMPEGNO IN ETIOPIA – Queste coppie sanno bene che la questione non è semplice, ma sono anche convinte della necessità che il nostro Paese faccia pressione sul governo etiope. Lo ha spiegato in Commissione Affari Esteri e lo ha ribadito a ilfattoquotidiano.it l’avvocata Tiziana Pozzoni, anche lei mamma di due bambini etiopi, di 9 e 5 anni, e membro del Centro Aiuti per l’Etiopia Onlus, uno degli enti autorizzato a operare nello stato africano per le adozioni internazionali. Anche la famiglia di Bianca è nata con il Cae. “Il nostro obiettivo è aiutare l’Etiopia, perché è il Paese di origine dei nostri figli, a cui saranno sempre legati” spiega a ilfattoquotidiano.it. Tutto questo anche “attraverso aiuti che consentono ai loro bambini di avere assistenza medica, cibo, istruzione, ma che oggi non sono sufficienti”.
UNA SCELTA POLITICA – La nuova normativa ha bloccato le adozioni internazionali per permettere a questi bambini di crescere nel loro Paese. Non è questo l’obiettivo finale che dovrebbe porsi anche la politica internazionale e al quale oggi tendono diversi Paesi in via di Sviluppo? “Certo, ma ci si basa sul presupposto che l’Etiopia sarebbe oggi in grado di occuparsi dei propri bambini, scongiurando per loro la perdita delle proprie radici” spiega l’avvocata. La strada intrapresa politicamente è quella di sostituire le adozioni internazionali con quelle nazionali e con l’accoglienza in comunità e istituti etiopici. “Qual è il Paese che desidera dare i suoi figli a un Paese straniero? Lo capiamo – continua – ma la realtà è diversa. In Etiopia oggi non esiste ancora una classe sociale media o medio-alta tale da farsi carico di tutte le adozioni necessarie a salvare questi bambini. Quando la situazione cambierà, allora la soluzione migliore sarà certamente quella di farli crescere nella loro terra”. E sulla perdita delle proprie radici: “Quando si valuta l’idoneità di genitori adottivi, il rispetto e l’impegno a mantenere viva la cultura d’origine sono considerati un aspetto prioritario e molti bambini conservano anche il loro nome”.
LA SITUAZIONE DEI BAMBINI – Come molte organizzazioni internazionali fanno notare, le condizioni di vita sono migliorate. “Ma sono ancora tanti i bambini che vivono in strada, che vengono abbandonati nei boschi e muoiono perché l’Etiopia non può accogliere tutte le istanze della popolazione” sostiene l’avvocata. Da quando le adozioni sono state bloccate, inoltre, molti orfanotrofi statali e privati sono stati chiusi. “Non vorremmo che si ripetesse ciò che è accaduto qualche anno fa in uno dei stati federali in cui il Cae era legittimato a operare – dice Tiziana Pozzoni – e dove il Mowa decise di bloccare le adozioni internazionali”. Invece che da coppie italiane, i bambini furono adottati da famiglie etiopi. “Mesi dopo – aggiunge l’avvocato – il presidente del Cae Roberto Rabattoni scoprì che la maggior parte di questi bambini erano morti”.
LA COOPERAZIONE CONTINUA – Da qui l’appello affinché non solo vengano sbloccate le procedure pendenti “a fronte della clausola di salvaguardia prevista dalla legge”, ma venga anche ripristinato “il diritto alle adozioni internazionali, considerando l’impegno che gli enti italiani stanno continuando a mantenere”. Perché in Etiopia dal 2009 gli enti che vogliono essere autorizzati alle adozioni internazionali devono sottoscrivere un impegno a realizzare progetti sul territorio in favore dell’infanzia. Dietro tutto ciò ci sono soprattutto le risorse economiche dei genitori che hanno già adottato o che vogliono farlo. “Troviamo giusto che si faccia di tutto per creare i presupposti affinché in Etiopia le condizioni di vita migliorino a tal punto da non rendere più necessario il nostro sostegno, anche nelle adozioni, ma – conclude l’avvocata – oggi i bambini hanno ancora un gran bisogno del nostro aiuto e, mentre le adozioni sono state bloccate, l’impegno per la cooperazione e gli ingenti investimenti italiani in Etiopia non si sono mai fermati. Qualcuno dovrebbe farlo presente”.