L’uccisione di Giulio Regeni a Il Cairo, nel gennaio 2016, è stato “un omicidio ordinario”. Le parole pronunciate dal ministro del Lavoro egiziano, Mohamed Saafan, alla sessione della Conferenza internazionale del lavoro in corso a Ginevra e riportate dal portale arabo al-Bawaba riportano la vicenda indietro nel tempo. A quando il governo egiziano non era disposto a percorrere altra strada se non quella della criminalità comune, dopo un tentativo di depistaggio che si concluse con l’uccisione dei membri della banda di presunti rapinatori. Prima delle rivelazioni del supertestimone che parla di una confessione di un agente egiziano riguardo alla convinzione della polizia dell’appartenenza di Regeni ai servizi segreti stranieri. 

“Si tratta di un omicidio ordinario che sarebbe potuto accadere in qualsiasi Stato, come gli omicidi di egiziani in Italia o quelli di qualsiasi altra persona di qualsiasi altra nazionalità”, ha detto il ministro. Ma i numeri raccontano una storia diversa. In Europa, negli ultimi anni, si è assistito a casi preoccupanti: basta pensare all’omicidio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia che stava indagando su casi di corruzione, morta dopo l’esplosione di una bomba nascosta nella sua auto, a quello di Jan Kuciak, reporter slovacco che indagava sulla gestione fraudolenta dei fondi europei nel suo Paese, o anche al caso di Sergej Skripal’, ex agente segreto sovietico naturalizzato britannico avvelenato con il gas nervino.

Niente di paragonabile, però, ai numeri dell’Egitto. Secondo la campagna indipendente Contro le Sparizioni Forzate, da luglio 2013 ad agosto 2018 sono 1.530 le persone scomparse nel Paese nordafricano, di cui almeno 230 nel periodo che va da agosto 2017 ad agosto 2018. Hafez Abu Seada, membro dell’Organizzazione egiziana per i diritti umani, ha invece affermato a settembre 2018 che delle 700 denunce di sparizioni forzate ricevute dalla ong dal 2015, 500, secondo quanto ammesso dallo stesso ministero dell’Interno egiziano, si trovano in detenzione. 

Senza contare la repressione nei confronti degli oppositori politici. Per raccontare l’approccio del regime di al-Sisi nei confronti del dissenso interno basta fornire alcuni numeri: 817, come il numero dei morti fornito da Human Rights Watch in seguito massacro di piazza Rabi’a, al Cairo, dove nel 2013 migliaia di appartenenti ai Fratelli Musulmani si erano riuniti per protestare contro la destituzione dell’ex presidente Mohamed Morsi, deceduto lunedì mentre si difendeva durante un processo.

Proprio la Fratellanza è stata l’obiettivo principale della repressione del nuovo governo militare, visto che è stata presto inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche e dichiarata illegale nel Paese, con decine di migliaia di membri finiti nelle carceri del regime.

Poi ci sono i dati sulla pena di morte: sono 2400 le condanne a morte durante la presidenza al-Sisi e 144 le esecuzioni dall’estate 2013, secondo quanto raccolto nell’archivio online dell’organizzazione non governativa britannica Reprieve. Sono invece 762 le morti di persone detenute in carcere successive al colpo di Stato dei militari.

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