Secondo la visione schematica di un saggio che ho appena finito di leggere, Quattro modelli di futuro di Peter Frase, le direttrici su cui si muoverà l’umanità sono imposte da una duplice paura. Paura del clima che cambia, poiché la Terra ha fatto il suo ingresso in una nuova era, non solo geologica ma anche biologica: l’antropocene. Terrore per l’estinzione del lavoro, il fondamento della società post-industriale, a causa dell’automazione, della robotica e, soprattutto, dell’intelligenza artificiale. Sono paure immateriali che prendono il posto di vecchie o antiche paure, come l’olocausto nucleare o la fame. Erano paure materiali; per questo, accertabili e assimilabili. E la speranza vinceva sulla paura.

Se ascoltiamo ciò che si discute nelle aule, si grida sugli autobus e si mormora nei luoghi di lavoro, non è insensato affermare che, entrando nel nuovo millennio, l’umanità sia piombata in un’età fortemente segnata dalla paura. Per comprenderla, non va sottovalutata la pulsione millenarista: nel mondo cristiano il millenarismo produsse una visione apocalittica, non estranea alla tradizione giudaica. Allora l’utopia convisse a lungo con la distopia, come dimostra uno scritto che non conoscevo, pubblicato su Wikipedia alla voce millenarismo: “intorno all’anno 2000, questa santità comincerà a diminuire: tornerà a crescere la rilassatezza tanto nel clero quanto nel popolo e nei religiosi; e poiché i peccati cresceranno, ci sarà una terribile apostasia dalla Chiesa romana; finché verrà Gog, dopo che saranno compiuti mille anni dalla morte del prossimo Anticristo, cosa che non accadrà molto lontano dall’anno 2365; e dopo l’arrivo di Gog e Magog, o contemporaneamente a loro, verrà l’ultimo Anticristo: dal paradiso terrestre accorreranno contro di lui Enoc ed Elia, e appariranno i segni della fine del mondo” (Giovanni di Rupescissa, Vade mecum in tribulatione, 1356).

L’umanità ha superato prove durissime durante il 900 e si è agevolmente sottratta alla profezia dei Maya, che pronosticava alla fine del 2012 una radicale trasformazione planetaria, per alcuni la fine del mondo. È capace di vincere la paura, a partire da quella che provò l’Homo sapiens di fronte all’Homo neanderthalensis e all’Homo erectus, più forti di lui. Ci sono però evidenti segnali che la paura sia l’emozione dominante dei nostri tempi, ancorché in vent’anni gli omicidi siano diminuiti del 20% perfino negli Stati Uniti. E, come racconta il magistrato Piercamillo Davigo nelle sue conferenze, la propria casa è il luogo dove si muore ammazzati con più frequenza in Italia.

Peter Frase è un sociologo marxista statunitense che traduce lo spirito del millenarismo sul piano del materialismo storico. Le sue direttrici si muovono su una matrice a due righe e due colonne. Le righe sono uguaglianza e gerarchia, mentre le colonne sono abbondanza e scarsità. Le quattro combinazioni della matrice porgono quattro modelli di futuro. E delineano due scenari utopici e due scenari distopici. Quattro incubi che non sono del tutto irrilevanti né campati per aria. E confermano l’amara considerazione di Paul Valéry che cito spesso: “Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta”.

Peter Frase usa la fantascienza per spiegare i suoi quattro scenari, dalle distopie di renditismo e sterminismo alle più familiari utopie del socialismo e del comunismo, quest’ultimo da raggiungere attraverso una stramba via capitalista. In particolare, la saga di Star Trek gli offre gli spunti più significativi. Un famoso autore di questo genere letterario, James Graham Ballard, ha però scritto che “la distopia suprema va cercata dentro la propria testa”. E non saprei confutare il paradosso dell’equivalenza di utopia e distopia, poiché il termine “distopia” è stato spesso abusato da individui pazzoidi, convinti che la loro utopia potesse funzionare per davvero.

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