di Roberto Iannuzzi*
Nel braccio di ferro attualmente in corso fra Stati Uniti e Iran, l’Europa spicca per la sua marginalità ma anche per la dissonanza di alcune sue posizioni. Com’è noto, Washington ha recentemente accusato Teheran degli attacchi a due petroliere nel Golfo di Oman, che erano stati preceduti da episodi analoghi nel mese di maggio. L’amministrazione Trump ha anche diffidato la Repubblica Islamica dal violare l’accordo nucleare, noto con l’acronimo inglese Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), dopo che lunedì scorso i responsabili iraniani avevano annunciato di voler accelerare il ritmo di produzione dell’uranio arricchito.
La posizione americana è tuttavia paradossale perché fu Donald Trump ad abbandonare l’accordo nel maggio del 2018, decidendo unilateralmente di imporre nuove sanzioni all’Iran sebbene l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) avesse certificato più volte (e tuttora certifichi) il pieno rispetto dei termini dell’intesa da parte di Teheran. Malgrado la decisione statunitense, gli iraniani da oltre un anno continuano ad onorare il Jcpoa poiché speravano di ottenere comunque dai rimanenti firmatari (Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania) la dovuta contropartita economica. Questi ultimi avevano promesso che avrebbero mantenuto i rapporti commerciali con l’Iran e proseguito gli investimenti nel paese, mettendo a punto meccanismi finanziari in grado di aggirare le sanzioni di Washington.
Nonostante le ripetute rassicurazioni – in particolare da parte dell’Europa – nulla di ciò si è verificato. Al contrario, le aziende europee sono fuggite dal paese, le banche internazionali hanno smesso di fare transazioni con gli istituti iraniani, e le esportazioni petrolifere di Teheran si sono ridotte quasi a zero. Ciò ha provocato una gravissima recessione, un’inflazione sfrenata e in molti casi anche la carenza di generi di prima necessità e di medicinali salvavita. Questa situazione è vissuta con un senso di profonda ingiustizia dai comuni cittadini iraniani, che vedono drammaticamente intaccato il proprio tenore di vita sebbene l’Iran avesse negoziato un’intesa internazionale proprio allo scopo di essere riammesso nel circuito economico mondiale.
Per queste ragioni, il mese scorso Teheran ha annunciato la decisione di sospendere temporaneamente alcuni adempimenti relativi all’accordo nucleare, concedendo agli altri firmatari 60 giorni per onorare i propri impegni pena l’adozione di ulteriori misure da parte iraniana. Il termine scadrà l’8 luglio, ma le autorità iraniane hanno anche confermato che se i restanti cinque paesi sottoscrittori del Jcpoa adempiranno ai loro obblighi, esse riprenderanno a rispettare in toto i termini dell’intesa.
E’ dunque evidente che Teheran non vuole abbandonare il Jcpoa, ma intende mettere in chiaro che non può rispettare unilateralmente un accordo disatteso da tutti gli altri contraenti. Gli incidenti nel Golfo, che Washington ha attribuito all’Iran, potrebbero avere una finalità analoga: mostrare al mondo che se all’Iran viene impedito di esportare petrolio, anche gli altri paesi produttori della regione potrebbero pagare un prezzo – una tattica certamente condannabile nei modi, ma che è la logica conseguenza della decisione americana di strozzare economicamente un paese che sta rispettando un’intesa internazionale.
Di fronte all’unilateralismo americano, l’Europa non si è purtroppo distinta né per indipendenza né per coerenza ed efficacia della propria azione politica. In particolare, lo scorso gennaio il gruppo E3 (Gran Bretagna, Francia e Germania) aveva annunciato la creazione di uno strumento finanziario denominato Instrument in Support of Trade Exchanges (Instex) in grado di consentire, a coloro che vi avessero aderito, di intrattenere scambi commerciali con l’Iran. A quasi cinque mesi da quell’annuncio, Instex è tuttora non operativo. Inoltre questo strumento dovrebbe riguardare ufficialmente solo lo scambio di “beni umanitari”, che in linea di principio è già permesso dalle sanzioni attuali.
E’ interessante notare che, mentre l’amministrazione Trump ha minacciato di sanzionare perfino questo strumento così limitato, le pressioni europee nei confronti di Washington per salvaguardare il Jcpoa sono andate scemando nel tempo. Al punto che, quando lo scorso maggio Teheran ha annunciato di sospendere temporaneamente alcuni adempimenti previsti dall’accordo, Bruxelles ha emesso un comunicato in cui si sottolineava il “rifiuto di ogni ultimatum” proveniente da Teheran, esprimendo invece un semplice “rammarico” per l’imposizione unilaterale delle sanzioni da parte statunitense.
La stessa dissonanza è parsa evidente nelle recenti dichiarazioni di diversi esponenti dell’E3. Dopo che lunedì scorso l’Iran ha ribadito che al termine dell’annunciata scadenza dei 60 giorni avrebbe adottato ulteriori misure, i leader di Germania, Gran Bretagna e Francia, apparentemente incuranti del fatto di essere i primi a risultare inadempienti nei confronti del Jcpoa, hanno esortato Teheran ad onorare i propri obblighi pena l’isolamento internazionale. La cancelliera tedesca Angela Merkel si è spinta ad affermare che l’Iran avrebbe dovuto rispettare l’accordo “altrimenti vi saranno certamente conseguenze”.
Con Washington apparentemente intenzionata a stringere sempre più il cappio dell’assedio economico e militare, e con un’Europa che sembra più incline a spaventare Teheran che a resistere alle pressioni americane, il Jcpoa rischia di avere ormai vita breve, con conseguenze difficilmente prevedibili per la stabilità regionale.
* Analista di politica internazionale, autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
@riannuzziGPC