“Noi non potremo mai essere contenti per ciò che è accaduto quella maledetta notte e nessuna giustizia può riparare il nostro dolore. Ma orgogliosi sì, per quanto fatto in questi dieci anni”, dice Marco Piagentini, che ha perso la moglie e due figli. Daniela Rombi, la mamma di una 21enne morta dopo 42 giorni di agonia: "Avevamo paura. Perché è la prima volta che viene riconosciuto colpevole, responsabile, un a.d. di un’azienda statale. Questo ha un significato politico enorme"
Ci sono le televisioni di tutta Italia puntate su di loro. I familiari delle vittime della strage di Viareggio sono tesi, nella saletta della circoscrizione del quartiere Marco Polo dove hanno dato appuntamento alla stampa per rompere il silenzio sulla sentenza di secondo grado pronunciata giovedì dalla Corte d’Appello di Firenze, che ha confermato le condanne ad alcuni manager italiani e tedeschi e ribaltato in assoluzione quelle ad altri. Accanto alla sala, proprio dietro la parete, c’è la stanzina che fa da sede alla loro associazione, Il Mondo che Vorrei, ma non è abbastanza grande per accogliere le telecamere. È piena di targhe, striscioni, manifesti: “No alla prescrizione per Viareggio”, “Giustizia e verità”, “Viareggio non dimentica”. Basta affacciarsi e dare un’occhiata, per capire di cosa è fatta la battaglia lunga dieci anni che li ha visti protagonisti.
Per incontrare i giornalisti, hanno appeso uno striscione con i volti delle 32 vittime. Accanto, un quadro di Lorenzo Viani, il pittore viareggino che ritraeva gli ultimi: cavatori di marmo, vedove dei pescatori, figure umili e forti. “Noi non potremo mai essere contenti per ciò che è accaduto quella maledetta notte e nessuna giustizia può riparare il nostro dolore. Ma orgogliosi sì, per quanto fatto in questi dieci anni”, esordisce Marco Piagentini. Le ustioni sul 95 per cento del suo corpo non saranno ‘risarcite’: il reato di lesioni colpose è caduto in prescrizione. Lui resta nel processo per vedere gli imputati rispondere almeno del reato di omicidio colposo plurimo, quello che il 29 giugno 2009 gli ha strappato la moglie Stefania Maccioni, 39 anni, ustionata al cento per cento, e i figli Luca, 4 anni, morto carbonizzato, e Lorenzo, 2 anni, sedato con le benzodiazepine prima di morire e riconosciuto solo per l’arcata dentaria. Solo il primogenito Leonardo, che ha appena compiuto 18 anni, è sopravvissuto con lui. Una copia del disegno che 10 anni fa il bambino consegnò all’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, oggi è appeso tra gli striscioni, nella sede dei familiari. Accanto, c’è la copia del cavalierato che lo stesso Napolitano dette alcuni mesi dopo a Mauro Moretti, ex a.d. di Ferrovie dello Stato, allora indagato, oggi condannato in secondo grado. “Presidente, a che gioco vuoi giocare?”, c’è scritto tra i due fogli.
“Gli imputati hanno sempre detto che vogliono fare un gesto forte. Lo possono fare rinunciando al ricorso in Cassazione, sarebbe un gesto concreto, e assumendosi le loro responsabilità e pensando chiaramente di migliorare il sistema di sicurezza ferroviaria: questo sarebbe il gesto secondo cui questo processo e 32 persone morte, non sarebbero morte invano. Al ministero dei Trasporti chiediamo, come organo massimo, che si impegni affinché il trasporto di merci pericolose venga fatto nella massima sicurezza. Questa sentenza ci dice che le Ferrovie dello Stato non hanno applicato quei sistemi mitigativi per ridurre il rischio. Ecco, adesso devono cominciare a farlo”, spiega Piagentini.
Accanto a lui, continua a fare di sì con la testa Daniela Rombi, che nell’incidente ha perso la figlia Emanuela Menichetti, morta un pomeriggio di agosto, a 21 anni, dopo 42 giorni di agonia nel reparto ustionati dell’ospedale di Cisanello, a Pisa. Il 29 giugno, per un puro caso Emanuela era a dormire da un’amica, Sara Orsi, che abitava vicino alla ferrovia, con la mamma Roberta Calzoni: sono morte pure loro. Non avrebbe dovuto essere lì, Emanuela, e oggi il suo volto è diventato l’emblema di una battaglia lunga dieci anni e non ancora finita. Manca ancora il terzo grado, la Cassazione, alla quale alcuni degli imputati hanno già dichiarato di voler fare ricorso. Ma oggi i familiari tirano un sospiro di sollievo.
“Sinceramente non ci credevo, io avevo paura. Avevamo paura. Perché è la prima volta che viene riconosciuto colpevole, responsabile, un amministratore delegato di un’azienda statale. Questo ha un significato politico enorme. Avevo paura – confessa Daniela Rombi – che anche questi giudici non avessero capito quello che era accaduto a Viareggio, ma non solo dei 32 morti, quel sistema, quel filo nero che accomunava ogni azienda. Avevo paura che quel potere forte fosse arrivato anche a Firenze. Avevo paura. Ma invece abbiamo tirato un sospiro di sollievo. È stato un tribunale che ha fatto anche delle assoluzioni, che dovremo capire con le motivazioni e dovremo rifletterci, ma ha avuto il coraggio di guardare quelle prove che i nostri avvocati, e la procura di Lucca all’inizio, hanno portato sul tavolo dei due tribunali. Hanno avuto il coraggio di guardarle e di accettarle”.