Lo scorso 3 dicembre la Procura di Torino chiese al Tribunale l’applicazione della sorveglianza speciale con divieto di dimora per due anni a carico di quattro persone che erano andate in Rojava a combattere Isis e di un’altra che aveva prestato servizio civile nelle zone colpite dalla guerra. Il motivo, secondo la pm Emanuela Pedrotta, era la “sussistenza della pericolosità” dei cinque (“già condannati o indagati o sottoposti a misure cautelari”) “ravvisabile dai recenti viaggi in Siria a sostegno delle milizie curde delle Ypg e delle Ypj, diretta emanazione del Pkk, considerata un’organizzazione terroristica da Turchia, Stati Uniti e Unione europea”. Per tre di loro poi (Davide Grasso, Maria Edgarda Marcucci e Jacopo Bindi) la pericolosità era confermata dalla “commissione di delitti” una volta rientrati in Italia.
La notizia, nei mesi scorsi, suscitò grande dibattito. Più di 300 intellettuali, tra cui Paolo Virzì, Zerocalcare, Maurizio Ferraris e Stefano Benni, sottoscrissero un appello per chiedere ai giudici di respingere la richiesta della Procura. Nel corso della prima udienza dello scorso marzo, il procuratore vicario Paolo Borgna si presentò in un aula stra piena per “attestare il sostegno di tutto l’ufficio al lavoro della dottoressa Pedrotta”. Che una volta davanti al microfono disse che c’era “una spiccata inclinazione alla violenza e all’uso delle armi” e che visto che “la ragione che li ha spinti in Siria non è salvare la nostra società dalla minaccia di Isis” e che in più “nel nostro Paese non ci sono associazioni terroristiche da combattere”, allora “il nemico non può essere uno solo: lo Stato e le sue istituzioni”. Da qui la certezza che i cinque fossero in grado, e volessero, destabilizzare l’ordine pubblico.
Il collegio, presieduto dai giudici Giorgio Gianetti, Daniela Colpo e Luciana Dughetti, ha respinto la richiesta della Procura per Grasso e Fabrizio Maniero, mentre ha stralciato le posizioni degli altri tre “proposti” (non imputati) riservandosi di svolgere ulteriori accertamenti. Nel merito, i giudici hanno chiarito che “l’adesione a forme di protesta sociale, tra cui l’opposizioni a grandi opere (leggi Tav, ndr) o la solidarietà manifestata a persone che vivono in situazione di disagio” non costituiscono di per sé “elemento per la valutazione della pericolosità” dei cinque. Così come l’esperienza in Siria non è rilevante a meno che “le acquisite competenze (belliche, ndr)” non si siano espresse “in condotte di pericolosità sociale”.
L’idea che mi sono fatto, di tutta questa vicenda, è che la Procura di Torino abbia voluto colpire quel poco di dissenso sociale, nato soprattutto come opposizione alla realizzazione dell’Alta velocità tra il capoluogo piemontese e Lione, che si è manifestato in città e nella provincia. Tutte e cinque le persone coinvolte, infatti, sono state o sono legate ai movimenti NoTav. In questo senso, rilevo con stupore una richiesta, quella della Procura, che fa acqua da tutte le parti. Quando, per esempio, cita il Pkk dimenticando di sottolineare come la Corte di giustizia dell’Unione europea abbia definito un “errore” quello di inserire l’organizzazione nella lista dei gruppi terroristici tra il 2014 e il 2017. Oppure quando imputa a Grasso la commissione di reati dopo l’esperienza siriana. “Sull’unico reato che avrebbe commesso” precisano i giudici, “è stata chiesta l’archiviazione”.
Oppure quando inserisce anche Jacopo Bindi, che in Rojava è andato come volontario per aiutare i popoli colpiti dal conflitto e per svolgere attività di informazione, nel calderone di chi si è arruolato “in un’organizzazione paramilitare” e ha acquisito “conoscenze in materia di armi”. Bindi, al contrario, non ha mai imbracciato un kalashnikov. E come può non tenere conto, la Procura, della parte scelta dai cinque nella guerra siriana? Quella, cioè, della lotta al terrorismo. Della lotta a un’organizzazione che ha seminato il panico in Medio Oriente e in Europa e che ha dichiarato guerra totale agli infedeli, kāfir, e alla democrazia. Cioè, a noi, all’Occidente.