Da qualche settimana circola in ambito accademico, ma anche su alcuni siti non specialistici, la notizia secondo la quale sarebbe stato decifrato il famoso manoscritto Voynich.
Per i non addetti ai lavori, si tratta di un prezioso manoscritto attualmente conservato presso la Beinecke library della Yale University, inventariato come MS408, interamente digitalizzato, e dunque consultabile da chiunque ne abbia la curiosità al seguente link.
Il manoscritto deve il suo nome a Wilfred Voynich (1865–1930), un antiquario polacco che lo acquistò agli inizi del secolo scorso dalla collezione della Villa Mondragone, oggi di proprietà dell’università di Tor Vergata, ma ai tempi della transazione sede del nobile collegio gesuita di Mondragone. In seguito alla morte di Voynich, che nel frattempo si era trasferito a New York, il manoscritto venne custodito dalla moglie fino agli inizi degli anni 60. Fu poi acquistato dal mercante d’arte Hans Kraus che nel 1969 ne fece dono alla Beinecke library.
La vicenda testuale che precede Wilfred Voynich è ancora più rocambolesca, e c’è addirittura chi ha proposto l’attribuzione del manoscritto al doctor mirabilis, cioè a Bacone (attribuzione tutt’altro che pacifica). Sia quel che sia, sappiamo che nel seicento il gesuita Athanasius Kircher si cimentò in un tentativo (fallito) di decifrazione e che, in seguito alla sua morte, la pontificia università Gregoriana acquistò la biblioteca di Kircher, manoscritto incluso. E col trasferimento del manoscritto a Roma il cerchio si chiude, quando appunto i gesuiti decisero di vendere questo misterioso documento a Voynich.
La datazione al radiocarbonio ha fugato una volta per tutte il dubbio che si tratti di un falso, o di un tiro mancino di qualche dotto antiquario burlone. Il manoscritto risale al XV secolo, un punto fermo importante in mezzo a una selva di problemi di ardua risoluzione. E veniamo alla presunta decifrazione ad opera di Gerard Cheshire, attualmente ricercatore presso l’università di Bristol e che, alla fine di aprile, ha pubblicato i risultati della propria ricerca sulla rivista Romance Studies.
Secondo Cheshire, il manoscritto sarebbe stato prodotto in quel di Ischia per la regina Maria di Castiglia. La selezione di Ischia viene proposta sulla base di tre fattori: 1) quella che sarebbe una rappresentazione grafica dell’isola stessa (una specie di mappa) 2) i legami che Maria di Castiglia con l’isola e 3) la lingua che secondo Cheshire sarebbe tipica dell’isola e che viene classificata come “proto-romanza”.
Sul secondo punto non sono in grado di esprimere un giudizio perché le mie conoscenze sulla figura di Maria di Castiglia sono rudimentali. Tuttavia sia il punto 1) che il 3) presentano lacune metodologiche rilevanti. Per quanto riguarda la presunta identificazione di Ischia, all’interno di quella che per Cheshire sarebbe una mappa del Tirreno, c’è davvero posto per tutti: dal Castello Aragonese a Lipari. Le varie attribuzioni geografiche sono fantasiose e non supportate da alcun elemento definitivo e probante. Quanto alla nozione di lingua pro-romanza (il punto 2)) quale lingua parlata ad Ischia nel corso del XV secolo, si tratta di un non sequitur. L’idea di lingua proto-romanza è per definizione un’ipotesi di lavoro. Si tratta della concettualizzazione di tratti comuni col fine di ricostruire una piattaforma di rapporti genealogici esistenti tra esperienze linguistiche successive. Insomma la lingua cosiddetta proto-romanza è “un’astrazione di laboratorio” e certamente non venne mai parlata ad Ischia, che si sviluppò linguisticamente al seguito di Napoli: città vicina, ricca ed influente.
Tralascio i rilievi paleografici di Cheshire che, per amore della propria causa, decide di leggere di volta in volta cosa gli pare, purché l’esito collimi con la sua architettura interpretativa.
In conclusione, mi pare che la proposta di Cheshire contribuisca poco o nulla al tentativo di decifrazione del manoscritto Voynich, il quale continua a conservare gelosamente i suoi segreti, ad oggi inaccessibili.