Dal 2017 le aziende con più di 25 dipendenti devono dimostrare di essere "in regola" con l'equità o scattano multe. Promotore della legge l'ex ministro Viglundsson che dice: "Frutto dell'impegno delle donne, che hanno rivendicato i propri diritti senza mai chiederli come un favore"
“They are born equal, but then the curse is set”. Nascono uguali, ma uno dei due è maledetto fin da subito. Lo slogan, accostato alle foto di due neonati – un maschio e una femmina – è quello scelto dal maggiore sindacato dell’Islanda per una campagna di sensibilizzazione sul gender pay gap, la disparità salariale tra uomo e donna. Un tema che lassù prendono molto sul serio, tanto che Reykjavik è ormai da nove anni campione del mondo nell’eguaglianza di genere secondo i dati del World Economic Forum. La svolta arriva a giugno 2017, quando il parlamento dell’isola approva la legge che impone a tutte le aziende con più di 25 dipendenti di ottenere, ogni anno, una certificazione di equità salariale, pena sanzioni economiche. Un provvedimento – in vigore dal 1° gennaio 2018 – finora unico al mondo, voluto dall’ex ministro delle Politiche sociali e dell’Eguaglianza Thorsteinn Viglundsson, ospite dell’università Bocconi di Milano in un incontro organizzato dall’associazione no profit Winning Women Institute.
“Il cambiamento non arriva da solo, va provocato”, dice Viglundsson, che oggi è deputato per il Partito delle riforme, di ispirazione liberale. “E questo risultato è il frutto di anni di impegno delle donne islandesi nel rivendicare i propri diritti senza mai chiederli come un favore. A partire dal grande sciopero femminile del 1975, decisivo nel porre il tema dell’eguaglianza al centro del dibattito pubblico”. Così, nel corso dei decenni – grazie anche ai governi di Vigdis Finnbogadottìr, prima donna presidente della Repubblica e rieletta per quattro mandati consecutivi, dal 1980 al 1996 – l’Islanda vara una serie di riforme tutte dedicate al welfare femminile: l’asilo nido gratuito per il 90% dei bambini, le quote di genere imposte nei consigli d’amministrazione delle aziende e delle istituzioni pubbliche. Fino, appunto, alla legge del 2017, che fa della normativa islandese un best standard incontrastato in tema di parità di genere. E poi la legge sul congedo parentale va sempre nella direzione dell’equità: è fissata a tre mesi obbligatori per entrambi i genitori. Una modalità che impedisce alle aziende di preferire l’assunzione degli uomini a quella delle donne, visto che entrambi, se avranno figli, dovranno per forza assentarsi dal lavoro. Fra l’altro, il Parlamento sta pensando di portarli a sei, sempre obbligatori, sia per la mamma che per il papà.
“La certificazione si basa sugli standard ISO ed è svolta da un soggetto indipendente”, spiega l’ex ministro. “L’onere della prova è in capo all’azienda: è il datore di lavoro a dover dimostrare di essere in regola. Una scelta necessaria, perché abbiamo notato che le donne denunciavano le discriminazioni molto di rado, intimorite dalle conseguenze. Il sistema di garanzia dell’eguale retribuzione può essere diverso da azienda ad azienda in base alle esigenze: l’importante è che il lavoro sia valutato nella sua oggettività, a prescindere da chi lo presta. Qualcosa che non accade quasi mai”. Perché imporre questo standard per legge, invece di agire sulla consapevolezza e sulla sensibilità imprenditoriale alla questione di genere? “Ci siamo resi conto che lasciato a sé stesso il pay gap non tendeva a diminuire, anzi aumentava, soprattutto nei momenti di maggior traino dell’economia”, risponde Viglundsson. “Se non fossimo intervenuti, per colmare il divario ci sarebbero voluti secoli. Certo, è un provvedimento che allo Stato costa. Ma quando si parla di parità si oppone sempre l’argomento che costa troppo. Non abbiamo forse standard per la tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro e tante altre cose di cui nessuno dubita che lo Stato si debba occupare? Qui si tratta di diritti umani”.
Anche prima dell’entrata in vigore della legge, l’Islanda aveva un gap salariale compreso tra il 5 e l’8%. In Italia si aggira intorno al 10% e non ci sono vincoli per le aziende. Ma, nonostante manchi la consapevolezza, promuovere la gender equality è un valore e “qualcosa di cui l’azienda si può vantare”. Così Winning Women Institute ha quindi lanciato in Italia una certificazione indipendente di gender equality per le imprese che tenga conto non solo dell’aspetto retributivo, ma anche delle opportunità di carriera delle donne all’interno della società, della gestione della diversità di genere e, soprattutto, delle politiche di tutela della maternità. “Nel primo anno di progetto abbiamo certificato nove grandi aziende, tra cui Cameo, Sanofi e Allianz Partners”, spiega il presidente Enrico Gambardella. “I requisiti per ottenere il “bollino rosa” sono molto stringenti, per scelta precisa. Vogliamo che il rispetto della parità di genere si trasformi in un motivo di orgoglio e di buona pubblicità per le aziende che dimostrano di averlo. Se dovessi fare una scommessa, credo che in futuro il tema sarà molto più centrale di quanto non lo sia già ora. E l’Italia non può e non deve continuare ad essere fanalino di coda”.
Twitter: @paolofrosina