Il Presidente ha definito l'articolo del quotidiano come un “atto virtuale di tradimento”. Ma John Bolton ha detto che gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova strada, scegliendo una vasta gamma di potenziali obiettivi digitali nel tentativo di “dire alla Russia 'vi costerà caro'"
Esiste una dimensione in cui Washington e Mosca sono già apertamente in conflitto, l’una contro l’altra, ed è quella della rete. Un articolo del New York Times uscito pochi giorni fa evidenzia come gli Stati Uniti abbiano cercato di intromettersi nei sistemi di controllo delle reti elettriche russe ed eventualmente sfruttarne le debolezze per generare diffusi blackout. Una silenziosa ma pericolosa escalation che può avere effetti devastanti sulle infrastrutture che subiscono attacchi cibernetici e quindi impattare la vita di milioni di cittadini.
Mentre il giornale americano cita fonti anonime di personale che ha fatto parte dell’amministrazione Trump e che avrebbe dimestichezza con questo tipo di azioni, il Presidente si è subito premurato di bollare il Nyt come promotore di un “atto virtuale di tradimento”. Nel tweet successivo, invece, un’altra bordata ai media a lui invisi, cogliendo l’occasione per negare la veridicità degli attacchi.
Eppure, poche ore dopo, è stato lo stesso consigliere alla sicurezza nazionale, John Bolton, a dichiarare che gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova strada, scegliendo una vasta gamma di potenziali obiettivi digitali nel tentativo di “dire alla Russia, o chiunque altro sia impegnato in operazioni contro di noi: ‘Vi costerà caro’”.
Dell’utilizzo di mezzi informatici nella sempreverde disfida fra Mosca e Washington se ne parla diffusamente nei media dal 2016, in particolare dopo le iniziative, attribuite dalla Cia ad hacker russi, che sarebbero riuscite a scardinare le protezioni a difesa dei sistemi informatici del Comitato Nazionale dei Democratici per rubarne email e diffonderne poi il contenuto. Eppure le schermaglie virtuali sono pane quotidiano fra i due paesi, almeno sin dal 2008, quando furono rubati alcuni documenti secretati del Pentagono.
Questa azione portò alla fondazione di quello che oggi è il Cyber Command, con sede a Fort George G. Meade, nello stato del Maryland. Un’unità pensata inizialmente per scopi difensivi e che nel 2017, sotto la presidenza Trump, diviene un Comando Combattente Unificato e parificato ad altri organismi dell’esercito come l’UsStratCom, responsabile della deterrenza strategica e delle forze missilistiche. Una mossa che ha reso il Comando assai più indipendente. Dal 2018 poi, grazie alla firma di un memorandum presidenziale da parte dello stesso Trump, atti di carattere offensivo sono consentiti contro avversari stranieri.
John Sipher, un ex capo delle operazioni Cia in Russia, si dice convinto che l’establishment americano addetto alla sicurezza nazionale sia interessato a tagliare fuori il Presidente dai gangli decisionali più importanti e che attacchi come quelli imbastiti contro la Federazione Russa sarebbero tenuti a lui segreti. La sfuriata contro il New York Times sarebbe dunque l’ennesima prova dei crescenti dissidi all’interno dei vertici dell’amministrazione.
Dal canto loro le agenzie russe hanno riportato la notizia che diverse operazioni americane, in grado di prendere controllo di infrastrutture critiche della Federazione, sarebbero state ultimamente sventate. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, commentando l’articolo del New York Times, ha sottolineato come la possibilità di un attacco contro la Federazione Russa sia confermata proprio dallo stesso pezzo giornalistico e che diverse componenti strategiche dell’economia russa sono già state vittime di offensive virtuali.
A detta dello stesso Vladimir Putin, la Russia ha visto crescere gli attacchi cibernetici dai 12.000 del 2017 ai circa 17.000 del 2018. Anche per questo la Russia sarebbe intenzionata a formulare regole di condotta più chiare con la controparte americana. Una proposta che però non avrebbe ricevuto risposte e sarebbe dunque caduta nel vuoto.
Visto il clima di incertezza, gli ultimi anni hanno visto un incremento esponenziale delle iniziative internazionali per la protezione delle infrastrutture critiche. L’Unione europea ha iniziato questo percorso nel 2004, su iniziativa del Consiglio europeo, soprattutto con l’intento di contrastare gruppi terroristici interessati a minare la funzionalità di infrastrutture critiche. Dal 2006 ogni paese membro è stato poi invitato ad assicurare la protezione di infrastrutture nazionali, grazie anche al supporto della Commissione.
Le Nazioni Unite e la Commissione sul Contro-Terrorismo del Consiglio di Sicurezza hanno diffuso nel 2018 un “Compendio di buone pratiche” per la protezione di infrastrutture critiche contro atti terroristici. Secondo il documento, nel futuro nuovi gruppi terroristici saranno molto più famigliari con l’ambiente virtuale e in grado di sferrare attacchi con forti ricadute sulla popolazione.
Un blackout elettrico, generalizzato e sostenuto da continui e ripetuti interventi di hacker sui sistemi di ripristino, ha già dimostrato di poter lasciare intere regioni senza riscaldamento e illuminazione per ore, come accaduto in Ucraina nel dicembre del 2015. Svariate intromissioni virtuali nei sistemi di controllo e compagnie che gestiscono infrastrutture energetiche, fra cui anche alcune centrali nucleari, sono invece state assiduamente riportate nel corso degli anni.
Twitter: @Frank_Stones