“Non mangeremo mai un cane perché ha il nostro stesso sangue”. La frase l’abbiamo sentita con le nostre orecchie in un villaggio Dogon in Mali. Non per fare una classifica di popolazioni civili e meno crudeli nel mondo, ma giusto per segnalare che anche quando si fatica a mangiare e bere ogni giorno dell’anno esiste un minimo di rispetto per la dignità di altri esseri viventi. Già, perché in queste ore assistiamo per l’ennesima volta agli orrori che arrivano da Yulin in Cina, da quello che viene chiamato “festival” di qualche cosa. Festival delle barbarie forse. Dove si cuociono migliaia di cani. Fido, Fuffi, Black, Snoopy, Rocco, Achille, Peggy. Si proprio così si prende il proprio cane, quello del vicino, e quello del vicino ancora, oppure, meraviglia delle meraviglie, si allevano cani a centinaia in gabbie, uno sull’altro, per mesi, e a un bel momento ci si fa una sagra.
Se per assurdo qualche provocatore, magari un bravo cacciatore che fa il controllore e uccide per il “bene comune” daini, volpi, cinghiali, viene qui sotto e commenta che qualcosa bisogna pur mangiare. Ebbene allora lo dico con molta chiarezza, esistono anche episodi di cannibalismo. Perché allora non ci mangiamo tra di noi? Magari prima sparandoci a vicenda e rincorrendoci per i boschi? Il più forte sopravvive, no? Risolveremmo molti problemi di sovrappopolazione e di welfare. Così non avremmo né le lacrime di coccodrillo della Fornero, né le sparate salviniane.
La tradizione alimentare è invece (purtroppo per Yulin, per fortuna qui in Europa) il risultato della cultura stratificatasi nei secoli di un popolo, di un’area geografica, di un continente. Benessere o non benessere, anche tra chi ha poco o nulla, esiste una base di pietà. E allora da qualche parte nel pianeta con molti animali abbiamo imparato a convivere. E il cane ha saputo evolversi geneticamente cercando di fare lo stesso con l’uomo. Melanie Joy ha pubblicato di recente un provocatorio saggio intitolato: Perché amiamo i cani, mangiamo maiali e indossiamo le mucche (Sonda edizioni). La diversa percezione degli animali che ci circondano ci fa selezionare il relativo consumo di carne. Banale? Mica tanto. Quando l’associazione Essere Animali ha fatto assaggiare in pubblico “latte di cane” (ci sono i video online a testimoniarlo) c’è chi è fuggito inorridito, ma anche chi, curioso di infilare il naso nelle interiora di uno struzzo, l’ha assaggiato con naturalezza. Un libro, quello della Joy, che se mostrato tra gli “stand” culinari di Yulin provocherebbe sonore risate.
C’è lo spezzatino di labrador che scuoce, suvvia. Allora proviamo ad usare un aforisma: La consuetudine farà abituare le persone a qualsiasi atrocità (George Bernard Show). Così nelle ore in cui si svolge l’ennesima mattanza di Yulin, in cui si arrostiscono bassotti e si degustano cosce di beagle, si deve iniziare a spiegare bene, magari ad amici cinesi che sono qui in Italia, magari con migliaia di parenti in Cina, che la “grandezza di una nazione può essere giudicata dal modo in cui vengono trattati i suoi animali”. Lo diceva Gandhi che certo non era uno che non aveva a cuore i poveri, i diseredati, gli affamati. Un pezzo di pane si può dividere in due o in tre, magari proprio con un cane. Non dividere un cane in due o in tre e mangiarselo. E se da qualche parte bisogna pur iniziare per modificare l’orrore che vige attorno all’alimentazione globalizzata nel pianeta, iniziamo dalla mattanza di Yulin. Che qualche star mondiale si incazzi, che qualche politico la smetta per un attimo di vivere in perenne erezione di realpolitik. La via della Seta ma senza cani allo spiedo. Così almeno questo schifo annuale di Yulin come, diceva Riccardo Garrone in Vacanze di Natale, “ce lo saremmo tolti dalle palle”.