“Mi chiedo se la nostra buona volontà non renda più irresponsabili i governi che, sapendo che ci sono altri pronti a fare il loro lavoro, poi finiscono per lavarsene le mani“. Sono parole di una volontaria diciottenne in un campo per migranti. Parole raccolte da Martina Castigliani, in quello che non voleva essere un libro, in lei che voleva esser là per dare “solo” una mano, ma che la speranza di chi fugge e non esser dimenticato ha trasformato in dovere di narrare. La paura non è solo fuggire, sopravvivere, nuotare quando non hai mai visto il mare, ma anche quella che di te nessuno sappia che sei un essere umano e che esisti.

Le parole di uno fra i tanti bambini diventano il titolo Cercavo la fine del mare, ma la chiave con cui scoprire, sapere, vedere e capire è il disegno.

Martina lo racconta con quell’ingenuità meravigliosa che puoi conservare anche in età adulta, come in un bambino e aprirti allo stupore. Martina non sa ancora quanta maternità ci sia in lei ma la diffonde, perché la maternità può essere anche un sentimento e puoi amare i bambini anche se non sono figli tuoi (ed è vero anche il contrario).

Tradurre parole sconosciute di mille lingue in un campo di Babele è impresa non semplice e nemmeno di sicura riuscita, così Martina ha un’intuizione istintiva (la bambina in lei), di cui un istante dopo ne comprenderà la forza e la percorrerà tutta: il disegno. Il disegno è un gesto primordiale, anticipa il linguaggio e la voce graffiandola sulle pareti delle grotte, è il primo “dialogo” che uomo e donna condividono. E ancora oggi scavalca le differenze: un disegno fa vedere cosa voglio dire, esprime in segni grafici un’idea e l’alfabeto grafico della mia lingua non conosce barriere tra me e te. Disegnare è vedere, vedere è capire, disegnare è capire. E soprattutto nasce nella parte destra del nostro cervello, là dove il rigore analitico dell’emisfero sinistro impedirebbe di esprimere l’emozione di ogni trauma che la fuga verso una nuova vita ha obbligato al viaggio, dove la terra ferma è un altro mare su cui contar l’attesa.

Un foglio, matite e i pensieri disegnati parlano a Martina che così facendo non è più solo volontaria ma una bottiglia di vetro a cui i migranti consegnano un messaggio. Destinazione: chiunque voglia non dimenticarsi di loro.

E’ come se Martina Castigliani avesse infilato la mano nel fango e ne avessi estratto, pezzo dopo pezzo, brandelli di umanità e una volta raccontati ce li avessi restituiti con quell’identità che di colpo non è più magma umano indistinto su un barcone, orda da bollare come minaccia, a cui chiudere porti in faccia. Ma persone, quali sono, un attimo prima che l’oblio o il razzismo decida che sono solo massa e quando allora li abbiamo costretti schiavi sui mercantili è acqua passata.

All’inizio è stato La vita ti sia lieve di Alessandra Ballerini (avvocato della famiglia Regeni), storie di umanità sfocate che Alessandra restituisce ai loro nomi e cognomi, poi ho scoperto Martina Castigliani, storie di migranti che salva con un filo sottile come il tratto di una matita e diventa forma e ridà loro esistenza: l’identità. E l’identità passa anche da un sentimento, come Martina racconta, di un uomo e una donna migranti, che si conoscono nel campo e che un gioco cinico li investe: s’innamorano, ma lei è sposata. Clandestini alla terra, clandestini all’amore, clandestini ovunque si girino. Tranne a se stessi: si danno tempo, per constatare se quel sentimento è concreto e a quel punto decideranno cosa fare. Un uomo e una donna, che solo un pregiudizio vuole diversi, ma il cui amarsi è identico al nostro. Anzi no: là dove la vita lì costringe… “amarsi” sta sopravvivendo.

Non è un caso che, ancora, sia una donna ad aprirmi alla consapevolezza di quanto occorre, citando Vittorio Arrigoni, restare umani. Non è un caso che la sensibilità femminile sia fertile di una maternità che non è solo anatomia, ma è natura che a noi uomini è solo concesso aspirare.

Storie migranti raccontate dai disegni dei bambini migranti? Allora le chiedo un nuovo libro: storie di migranti raccontate da bambini italiani, affinché possano insegnarci da che parte stare.

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