Parecchi si stupiscono quando, durante la stagione estiva, nubifragi improvvisi colpiscono aree circoscritte con effetti al suolo devastanti. Soprattutto se si tratta di zone densamente popolate. Nel caso dei disastri idrogeologici, la memoria è breve e lacunosa. Eppure il sintagma “bombe d’acqua” nacque proprio d’estate, in seguito alla catastrofe di Cardoso in Versilia. Il 19 giugno 1996 un nubifragio di colpì la Toscana nord occidentale mentre sul resto del paese splendeva il sole. Si rovesciò su un’area di circa 60 chilometri quadrati, grande meno di un terzo del comune di Milano o di un ventesimo di quello di Roma. L’alluvione fu imponente. Il dissesto dei versanti, unito all’erosione degli alvei montani e allo sradicamento dei boschi, alimentò un elevato trasporto solido verso il fondovalle, dove il repentino cambio di pendenza provocò un enorme sovralluvionamento. I danni furono ingenti. Le vittime 14, più un disperso.

Come sottolinea un rapporto della National Academy statunitense, le alluvioni sono il rischio naturale che ha l’impatto economico più elevato. Non solo, l’impatto sta crescendo assai più velocemente di quello prodotto da tutti gli altri rischi naturali. E, soprattutto, le aree più colpite sono quelle urbane, in particolare le più povere. Senza contare gli eventi minori, il danno diretto delle alluvioni in zone urbane degli Stati Uniti dal 2004 al 2014 è stato calcolato in 9 miliardi di dollari, con 71 vittime (Framing the Challenge of Urban Flooding in the United States, March 2019). E se consultate le notizie online degli ultimi dieci anni, vi accorgete che non c’è stata un’estate senza alluvioni, con una focalizzazione sulle aree urbanizzate.

Per quasi due secoli, l’uomo ha affrontato il rischio alluvionale nell’illusione di poterlo dominare riducendo la pericolosità. Nulla di più illusorio. Le opere d’ingegneria civile per la difesa passiva dalle piene torrentizie e fluviali non sono sufficienti a garantire consapevoli, eque e condivise politiche di adattamento. Argini e muraglioni, scolmatori e vasche di laminazione possono certamente servire quando sono ben progettati. Se mal progettati e peggio eseguiti, non fanno che aggravare l’impatto degli eventi a cui non sono in grado di resistere, diminuendo la resilienza del territorio.

Il rischio nasce dalla composizione di tre fattori: pericolosità, esposizione e vulnerabilità. Nel caso del rischio sismico, nessuno si è mai sognato di poter diminuire la pericolosità, ossia la sismicità naturale. L’ossessione delle istituzioni e dei privati per la “messa in sicurezza” idraulica viene invece interpretata come eliminazione tout court della pericolosità idrologica. Tutto ciò fa dimenticare che, per convivere con il rischio senza patemi, agire sull’esposizione e sulla vulnerabilità è altrettanto, se non più importante.

In Italia, poco o nulla si fa per diminuire l’esposizione, evitando di localizzare insediamenti e infrastrutture in aree pericolose. L’economia della cazzuola – dallo stadio al polo universitario, dal parco tecnologico al centro commerciale e alla piattaforma logistica, senza parlare dell’edilizia residenziale – dimentica facilmente la pericolosità del sito che ha adocchiato. E la parziale o totale delocalizzazione di ciò che già si trova storicamente a forte rischio si fa soltanto a parole.

Gli Stati Uniti stanno facendo un enorme sforzo per diminuire la vulnerabilità degli insediamenti. È uno sforzo facilitato dall’interpretazione neoliberista della questione, affidata alla copertura assicurativa del rischio. Se vuole contenere il premio assicurativo, chi è a rischio deve usare metodi appropriati di flood proofing, le misure di protezione locale, permanenti o temporanee, che riducono fino al 75% del danno economico a beni e servizi. In Europa, il flood proofing è ancora poco sviluppato, anche se i paesi del Nord Europa stanno facendo grandi e rapidi progressi in questa direzione.

Territorio, edifici e infrastrutture europee sono molto diversi rispetto a quelli americani. Per rispondere alla sfida alla luce della specificità europea, in questi giorni esce nelle librerie un libro che abbiamo interamente dedicato alla questione: Flood Proofing in Urban Areas, per i tipi di Springer Nature, uno dei massimi editori globali. Oltre a mostrare la varietà e la molteplicità delle soluzioni pratiche, è il primo testo che cerca di porre le basi scientifiche con cui ideare, pianificare, allocare, progettare, certificare e verificare queste misure.

Il flood proofing non è la novità della storia della tecnica, ma il prodotto di una tradizione euristica: sono misure anche molto semplici, spesso dettate dall’abilità artigianale, dall’ingegno pratico e dal buon senso. Come quello che 30 anni fa riuscimmo a fare applicare al parking sotterraneo di Piazza della Vittoria a Genova, che le tre successive inondazioni della piazza non hanno mai alluvionato. A differenza di un analogo silos interrato multipiano, realizzato a pochi metri di distanza nella stessa epoca. Era la vigilia delle Colombiadi del 1992, a 500 anni dalla scoperta dell’America.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Un’inchiesta giornalistica francese chiama in causa le multinazionali delle sementi

next
Articolo Successivo

Onu, “entro il 2030 oltre 120 milioni di poveri in più: solo i ricchi sfuggiranno alla fame”

next