La Corte d'Assise di Bologna ha assolto Roberto Raffoni e Rosita Cenni, padre e madre di Rosita Raffoni che cinque anni fa si uccise lanciandosi dal tetto della sua scuola a Forlì, dopo aver lasciato in lettera e in video accuse fortissime nei confronti dei genitori. Un testamento-denuncia che portò gli inquirenti ad accusare marito e moglie.
Erano stati condannati in primo grado a tre anni e quattro mesi di reclusione con l’accusa di maltrattamenti e istigazione al suicidio nei confronti della figlia 16enne. Mercoledì, la Corte d’Assise di Bologna ha assolto Roberto Raffoni e Rosita Cenni, padre e madre di Rosita Raffoni che cinque anni fa si uccise lanciandosi dal tetto della sua scuola a Forlì, dopo aver lasciato in lettera e in video accuse fortissime nei confronti dei genitori. Un testamento-denuncia che portò gli inquirenti ad accusare marito e moglie.
Dopo circa un’ora di camera di consiglio il verdetto è stato ribaltato in Appello per entrambe le accuse. “Pur nel dolore di una tragedia, perché Rosita non c’è più”, i difensori della coppia, gli avvocati Michela Vecchi, Marco Martines e Giuseppe Coliva, sottolineano come la sentenza dei giudici di appello riconosca “la realtà dei fatti. Non ci furono mai maltrattamenti, né istigazione al suicidio”.
Era il 17 giugno 2014 quando Rosita decise di concludere la sua giovane vita. Prima di farlo girò un lungo e straziante filmato con il cellulare, interrotto solo dallo scaricarsi della batteria. Disse ai genitori che l’avevano odiata, non l’avevano mai capita e aggiunse che, proprio per questo, il suo suicidio a loro non sarebbe dispiaciuto. Il rimpianto per la vita e i sogni interrotti veniva superato dal convincimento di non poter più andare avanti in quelle condizioni.
“Molto più che i rimproveri, i litigi, le discussioni e persino le punizioni, stupiscono e connotano questa anomala forma di maltrattamento, l’indifferenza, il distacco emotivo, la mancanza di dialogo ed empatia, il disinteresse, il fastidio provati nei confronti di una figlia straordinariamente sensibile e intelligente”, avevano scritto i giudici di Forlì nella sentenza di condanna di primo grado, parlando di “cinismo”, “svalutazione della personalità”, condotte “improntate a castrazione e repressione”.
“È una storia spaventosa, drammatica, forse unica in un’aula di giustizia. Tutti noi oggi vorremmo essere altrove, tuttavia è nostro dovere affrontarla”, ha detto nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale Valter Giovannini, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado per i due coniugi. Le motivazioni dell’assoluzione saranno depositate in novanta giorni e a quel punto la Procura generale potrebbe fare ricorso in Cassazione.