La credibilità della giustizia è minata, in Italia come altrove. Il germe del potere ha infettato i rapporti tra le correnti dei giudici e le relazioni tra i magistrati e i potenti della politica, un’infezione così estesa da far sembrare di fatto superata la divisione tra i poteri dello Stato – con buona pace per le teorie di Montesquieu e Locke – in favore di un’invasione di campo da parte dei partiti.
È questa una sensazione diffusa anche in Spagna, dove i rapporti tra magistratura e politica sono oggetto di discussioni, di contrasti spesso accesi tra partiti, di tentativi di riforma quasi sempre mancati. Dieci anni fa il progetto di approvazione dell’Estatut – che attribuiva maggiori autonomie alla Catalogna – prevedeva l’istituzione di un Consiglio giudiziario su base regionale, con nomine effettuate dal Parlamento con sede a Barcellona. Come dire, l’epicentro passava da Madrid alla città di Gaudì ma con il ruolo principale giocato sempre dalla politica. L’ampio disegno riformatore non passò, perché bloccato dal Tribunale costituzionale chiamato a pronunciarsi su un ricorso proposto dai conservatori del Partido popular. È quindi rimasto in piedi il sistema centralistico di composizione del Consejo General del Poder Judicial (organo in tutto equivalente al nostro Csm) che, nella sua formazione, lascia campo aperto alle ingerenze della politica.
I 20 membri del Consejo (di cui otto sono avvocati o giuristi e dodici magistrati) sono eletti esclusivamente dai due rami del Parlamento (12 dal Congresso e 6 dal Senato su una rosa di 36 candidati proposti dalle associazioni di categoria); in Francia solo il 40% dei 15 componenti è di nomina politica, mentre in Italia solo otto membri (il 30% circa) sono scelti dal Parlamento. Eppure l’articolo 122 della Costituzione del 1978 stabilisce che siano soltanto otto i membri eletti dal Parlamento; tuttavia una successiva legge ordinaria ha fissato criteri più favorevoli alla politica, pur garantendo all’organismo una indipendenza di azione. In effetti la giustizia spagnola ha dato prove di autonomia lottando contro fenomeni corruttivi.
È peraltro indiscusso che la Spagna è un paese con solide radici democratiche: nei 40 anni post franchisti lo Stato iberico ha conseguito risultati di rilievo assoluto. Lo confermano le statistiche internazionali: Freedom House lo scorso anno attribuiva al paese iberico il 20esimo posto nella classifica dei paesi con maggiori diritti e libertà civili (l’Italia è soltanto 28esima, preceduta dalla Francia). I numeri delle statistiche, tuttavia, non dicono tutto sullo stato di salute di una democrazia. All’interno, ciclicamente divampano polemiche sui rapporti giustizia-politica, si mettono quindi in discussione i criteri di nomina dei giudici del Supremo e della Audiencia nacional – l’organo funzionalmente competente per i reati di corruzione -, scelti esclusivamente dal Consejo General senza alcuna progressione automatica. I vertici dei principali partiti da anni mettono al centro dell’agenda politica una riforma che limiti la lottizzazione (termine italiano entrato nel dizionario del giornalismo spagnolo); la serietà del dibattito è però pari a quella dei partiti italiani quando discettano di una nuova legge elettorale nell’interesse generale. Un autentico sainete (una farsa grottesca), commentano i giornali iberici.
Lo scorso autunno Manuel Marchena, il carismatico giudice del Tribunale Supremo che a breve emetterà sentenza sui leader catalani separatisti accusati di sovvertimento dell’ordine democratico, ha rinunciato al posto in seno al Consejo General e alla presidenza del Supremo a seguito delle polemiche politiche. In un messaggio captato dalla stampa Ignacio Cosidó, portavoce al Senato del Partido popular, si vantava dell’accordo con i socialisti per il rinnovo dell’organismo dei giudici. In base a quel patto i conservatori avrebbero controllato – così riferiva – la sezione penale del Supremo. Parole che hanno portato alla rinuncia il magistrato Marchena, divenuto un personaggio per il rigore con cui ha condotto le fasi del procés ai politici catalani. In un comunicato il giudice ha dovuto precisare: “Mai ho concepito la funzione di giudice come strumento al servizio dell’una o dell’altra parte politica”.
Siamo in Spagna, sembra l’Italia. Lo sottolinea a muso duro Miguel Mora, un tempo corrispondente in Italia de El País, ora direttore della rivista Contexto: “la politicizzazione della giustizia, sempre di moda nell’Italia contemporanea, si è esacerbata anche in Spagna ma con un segno opposto: abbiamo un Tribunale costituzionale e vertici giudiziali ultraconservatori”. Con due nemici ben definiti – spiega Miguel Mora – il separatismo catalano e la libertà di espressione degli artisti (il riferimento è alla Ley mordaza – la legge bavaglio voluta dai Popolari – della quale scriveremo in altra occasione). “Di certo”, conclude l’ex corrispondente da Roma, “le teorie espresse da Montesquieu ne Lo spirito delle leggi sono oggi messe a dura prova”.