Sarà discussa nei prossimi giorni la proposta di legge con la quale Parlamento e governo francesi sembrano intenzionati a dichiarare guerra alla diffusione online di contenuti illeciti o, comunque, incitanti all’odio, alla violenza e alla discriminazione. La proposta prevede che i gestori dei motori di ricerca, quelli delle grandi piattaforme di aggregazione di contenuti prodotti da terzi e dei social network debbano rimuovere, entro ventiquattrore dalla richiesta da chiunque ricevuta, qualsiasi contenuto appartenente, almeno in apparenza, alle predette categorie di contenuti.
La sanzione per il fornitore del servizio online in caso di inottemperanza alle nuove regole e mancato adeguamento alla diffida indirizzatagli dal Consiglio dell’audiovisivo – più o meno la nostra Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni – potrà arrivare fino al 4% del fatturato mondiale annuo, una cifra da capogiro, analoga alla più severa delle sanzioni previste dalla nuova disciplina europea sulla privacy, il famoso Gdpr.
Il fine è indiscutibilmente nobile, i mezzi identificati per perseguirlo meno, anzi, forse, niente affatto perché il rischio censura è elevatissimo.
Ventiquattrore sono un lasso di tempo destinato a risultare spesso insufficiente per gestire in maniera ponderata migliaia di richieste di disindicizzazione o rimozione di contenuti valutando, caso per caso, quando la contestazione è fondata e quando non lo è e la sanzione è tanto elevata da suggerire, nel dubbio, la rimozione o la disindicizzazione del contenuto.
E sforzi e correttivi messi in campo nel tentativo di contenere il rischio censura appaiono apprezzabili ma insufficienti: una sanzione fino a 15mila euro per chi richieda “dolosamente” la rimozione o disincizzazione di un contenuto e il diritto dell’autore del contenuto di difendere – davanti allo stesso gestore della piattaforma o fornitore del servizio – la liceità del contenuto dopo, tuttavia, che lo stesso è stato rimosso o disindicizzato.
Impossibile sottrarsi al rischio che il segnalante proceda sotto falsa identità mettendosi così al riparo da ogni sanzione dato che la legge esige, semplicemente, che i gestori delle piattaforme e dei servizi richiedano un nome, un cognome e un indirizzo mail e inutile o quasi – davanti all’abnorme rischio sanzione per il gestore della piattaforma o il fornitore di servizio – il riconoscimento del diritto al ricorso all’autore del contenuto.
Senza dire che i contenuti pubblicati in forma anonima ma, magari, leciti e democraticamente preziosi, sembrano sistematicamente condannati all’oblio non esistendo, per essi, nessuno che possa difendere la legittimità della pubblicazione. Il problema è innegabile che esista e sia serio ma quella che rimbalza da Parigi non sembra una soluzione equilibrata, ponderata e bilanciata.
Nella sostanza si trasformano delle corporation in giudici privati e si affida loro – sotto pena di sanzioni astronomiche – il compito di mantenere Internet “pulita”. In fondo è, più o meno, la ricetta europea alla tutela del diritto d’autore applicata, però, a una serie di fattispecie in relazione alle quali distinguere tra la liceità o illiceità di un contenuto è enormemente più complicato.
La libertà di parola attraverso il web vale più di così.
Se proprio ci si deve incamminare lungo un sentiero così tanto impervio, andrebbe, almeno, previsto che il fornitore del servizio o il gestore della piattaforma rischia la stessa sanzione se rimuove o disindicizza contenuti che meriterebbero di restare online. Ma, la verità, è che ogni qualvolta si deroga alla regola generale secondo la quale tocca solo a Giudici e Autorità decidere della liceità o illiceità di un contenuto online, il rischio censura è inesorabilmente in agguato.