“I bambini non hanno più niente da mangiare e muoiono di fame qui…”. Poi un pianto liberatore in diretta tv su al-Jazeera e il giornalista costretto ad interrompere il collegamento. La scena fece il giro del mondo, commosse l’opinione pubblica e rese umana, per un istante, la guerra in Siria. Era il 3 agosto del 2016 e ad Aleppo si combatteva aspramente. Da una parte i ribelli asserragliati nella parte orientale della città, dall’altra l’esercito governativo di Damasco supportato dai raid aerei dell’alleato russo. Un assedio lungo mesi, tanto che molti lo hanno paragonato a quello di Sarajevo dall’aprile del 1992 all’inizio del 1996.
Le lacrime, spontanee, ricordarono a tutti cosa stava accadendo nella città Patrimonio dell’Unesco. Il giornalista era Milad Fadel, corrispondente del grande network qatariota. Lo stesso che, appena tre giorni dopo, sempre ad Aleppo, aveva rischiato la vita durante un attacco missilistico mentre era in collegamento in diretta con lo studio di Doha. Quel giorno Fadel indossava casco e giubbotto antiproiettile d’ordinanza con la scritta press ben evidente. All’improvviso un boato, le fiamme e la polvere sollevata dall’attacco. Milad Fadel rimase ferito, per fortuna in modo lieve.
Successivamente la storia ha fatto il suo corso. Sempre nel 2016, in autunno inoltrato, dopo migliaia di vittime civili provocate dagli scontri, Aleppo venne liberata, l’area ad est evacuata e la popolazione, al netto dei guerriglieri delle milizie islamiste, spostata nella vicina provincia di Idlib, al confine con la provincia turca di Antiochia (Hatay). Lo stesso percorso compiuto, nei mesi a seguire, dai civili siriani e dai miliziani delle decine di gruppi ostili al presidente Bashar al-Assad rintanati a Dar’a, al-Suweida, Douma, Ghouta orientale e altre località siriane.
Una strategia, quella di Assad, volta a convogliare i connazionali scomodi in un’area delimitata, la provincia di Idlib appunto, in modo da poter riprendere il controllo del resto del Paese, a parte i territori contesi con i curdi a est e a nord-est della Siria. Inizialmente scongiurate da una serie di accordi tra i Paesi coinvolti nel conflitto, dall’inizio del 2019 le azioni militari siro-russe sono entrate nel vivo.
Sotto i barili-bomba di Damasco, le bombe dei caccia russi e in mezzo alle azioni dei gruppi terroristici sunniti di ispirazione salafita c’è lo stesso Milad Fadel: “Subito dopo l’assedio di Aleppo sono tornato a Idlib, la mia provincia di origine, dove è sempre vissuta la mia famiglia. Sono nato nel villaggio di Ehsim (una trentina di chilometri a sud di Idlib, ndr) e qui ho abitato fino a pochi giorni or sono. Una mattina di due settimane fa siamo riusciti a salvarci per miracolo durante il raid di un gruppo di elicotteri dell’esercito di Assad”.
“Erano da poco passate le 8 – racconta il giornalista – la bomba è caduta ad una decina di metri di distanza, sopra la casa di un vicino. Loro sono tutti morti, l’effetto dell’esplosione ha sfondato la cucina e il bagno della mia casa, colpendo anche la stanza da letto. Per fortuna dentro non c’era nessuno di noi, io, mia moglie e i nostri 4 figli, eravamo all’esterno, preoccupati dal rumore dei mezzi aerei in sorvolo. Due dei miei figli sono rimasti feriti, ma non in maniera grave. Da quel giorno, dopo aver recuperato le nostre cose, ci siamo trasferiti a casa di mia sorella, nella città di Idlib, assieme a mia madre”.
“Vivere ogni giorno col pericolo costante di diventare il bersaglio di un missile o di una bomba è terribile. Vai avanti sapendo di poter morire da un momento all’altro e poi c’è il pensiero dei bambini, le vere vittime innocenti. Tu immagina di stare dentro casa e di sentire, più o meno in lontananza, i raid aerei, le esplosioni. In famiglia ci guardiamo uno con l’altro, col terrore negli occhi, sperando non tocchi a noi. È una vita di pura angoscia, nel silenzio internazionale. Nessuno si interessa di questo conflitto, siamo stati dimenticati”.
Ma come si è arrivati all’escalation militare contro la provincia ribelle di Idlib? Fosse stato per Bashar al-Assad, lui non ci avrebbe pensato su troppo. La sua volontà di radere al suolo quel territorio “infestato” di nemici, buoni o cattivi che fossero, era nota. Un impeto tenuto a freno, non senza difficoltà, da Mosca, soprattutto dal suo ministro degli esteri, Sergej Lavrov, ma anche dall’Iran e dalla Turchia. E dalle Nazioni Unite, sempre più indebolite nello scacchiere mediorientale, con l’ex inviato speciale per la Siria, Staffan de Mistura, poco gradito da Damasco e costretto poi, di fatto, alle dimissioni.
La strategia scelta nella prima fase della campagna è stata quella del dialogo con i rappresentanti dei principali gruppi sunniti, a partire da Hayat Tahrir al-Sham (Hts), nato sulle ceneri del movimento al-Nusra, l’organizzazione siriana affiliata ad al-Qaeda. Di peso anche la presenza dell’Nlf, il Fronte di liberazione nazionale, nato sulle tracce dell’Esercito siriano libero (Fsa) nel 2018 e appoggiato dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Dialogo finalizzato ad una serie di accordi da rispettare, non prima di aver creato una fascia demilitarizzata, larga una ventina di chilometri, attorno al perimetro della provincia di Idlib. Create una serie di postazioni di vigilanza da parte della Russia, dell’Iran e della Turchia, tutte collegate tra loro per controllare eventuali comportamenti fuori dalle righe.
Per buona parte dello scorso anno le cose sono andate avanti senza intoppi, nonostante azioni isolate e scontri provocati dalle parti in conflitto. C’erano però alcuni punti della trattativa da rispettare, una sorta di road map a cui i ribelli sunniti avrebbero dovuto allinearsi per entrare poi nel vivo degli accordi. I primi punti avevano delle scadenze temporali precise: entro la prima metà di ottobre 2018 tutte le armi pesanti in possesso delle milizie dovevano essere consegnate al di là della fascia demilitarizzata; entro il 31 dicembre 2018 le due arterie principali del nord della Siria, la M4 e la M5, molto strategiche per collegare la Siria orientale al Mediterraneo, liberate, riaperte e rese sicure.
Nessuno dei due punti è stato preso in considerazione dai gruppi guerriglieri. Da qui la ripresa delle azioni militari da parte del governo siriano e della Russia, ormai quotidiane e a tappeto, e la reazione dei miliziani. Un mix infernale per gli oltre 1,5 milioni di civili intrappolati in un territorio grande, più o meno, come l’Umbria, veri e propri bersagli mobili, vittime sacrificali di un conflitto internazionale camuffato da guerra civile. In sei mesi, oltre a migliaia di morti, la campagna militare ha prodotto un numero spaventoso di sfollati e la nascita di campi dove però il grosso delle organizzazioni umanitarie non può arrivare a causa dell’elevato rischio.
La tregua degli ultimi giorni non sembra in grado di reggere alla prova dei fatti: “Ci sono almeno 450mila persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case e dai villaggi a causa del conflitto – aggiunge Milad Fadel -, ora sopravvivono in centri di accoglienza nati in maniera spontanea verso il confine turco. Qui manca tutto, cibo, non ci sono assistenza e cure mediche. È in corso una vera e propria crisi umanitaria. Siamo intrappolati come topi, il territorio sigillato, nessuno può uscire, la Turchia ha chiuso la frontiera e non accoglie nessuno al momento. Negli ultimi giorni gli scontri si sono spostati più a sud, a cavallo tra le province di Idlib e Hama (altro territorio soggetto a violente campagne militari nel corso degli anni, ndr) dove i gruppi ribelli sono riusciti a riprendere alcune postazioni perse in passato”.
“Il regime risponde con attacchi aerei costanti. Gli aerei e gli elicotteri di Assad bersagliano le case dei civili, oltre agli obiettivi militari. A combattere contro Damasco non sono soltanto i gruppi ribelli, ma anche gente comune che cerca di difendersi e di ripristinare la libertà da un regime dittatoriale – conclude il giornalista – Sono oppositori pacifici costretti a difendersi, non hanno nulla a che vedere coi gruppi militari organizzati che Assad chiama terroristi. Qui c’è tanta gente per bene il cui desiderio è solo quello di vivere in pace. Io stesso sono un civile, non ho mai preso in mano le armi, vorrei solo garantire un futuro ai miei figli e fare il mio lavoro di giornalista. Per ora spero di sopravvivere”.