Undici chilogrammi di esplosivo – e non 20-25 come si riteneva in precedenza – composto da T4 e tritolo con residui di gelatina – il contrario di quanto ritenuto finora nei processi a carico di Mambro, Fioravanti e Ciavardini – derivati da cariche da lancio di munizionamento sconfezionato della Seconda Guerra Mondiale ma, soprattutto, un interruttore di sicurezza per il trasporto della valigia contenente l’ordigno: la nuova perizia, la quarta in ordine di tempo, sulla strage di Bologna – 160 pagine oltre agli allegati di cui dà notizia l’agenzia Adnkronos – consegnata oggi, dopo due mesi di lavoro, al presidente della Corte d’Assise di Bologna, Michele Leoni che sta celebrando il processo nei confronti l’ex-terrorista dei Nar, Gilberto Cavallini, per l’attentato del 2 agosto 1980, modifica completamente lo scenario fin qui conosciuto rimettendo in discussione l’impianto giudiziario complessivo e smentendo, in gran parte, le precedenti risultanze.

La novità più clamorosa della nuova perizia, svolta con tecnologie e mezzi che in precedenza non esistevano, riguarda, certamente, il ritrovamento di un interruttore elettrico di tipo “on-off” – sul quale è stata ritrovata l’”impronta” dell’esplosivo – incompatibile non solo con qualsiasi deviatore presente nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna dove venne posizionata la valigia contenente l’ordigno ma, anche, con materiale appartenente alle Ferrovie. Per i periti, l’interruttore, simile ad un interruttore dei tergicristalli di un’auto, posizionato su una staffa di metallo, piegata da un lato, di circa dieci centimetri di lunghezza per 3 centimetri di altezza, trovato l’estate scorsa dall’esplosivista geominerario Danilo Coppe nel mucchio di materiale che venne ammassato all’epoca della strage all’interno della caserma di Prati di Caprara quando la stazione di Bologna venne sgombrata dai detriti dopo l’attentato, è compatibile con un interruttore di sicurezza artigianale realizzato da chi ha costruito l’ordigno ed è stato utilizzato per evitare l’esplosione durante il trasporto. Ma, trattandosi di un congegno artigianale, sarebbe stato difettoso.

Meno di due anni dopo, il 18 giugno 1982, Christa Margot Frolich verrà fermata e arrestata all’aeroporto di Fiumicino nel corso di un controllo mentre trasporta una valigia contenente, all’interno di un doppiofondo, 3 chilogrammi e mezzo di miccia gommata verde, composta da Pentrite prodotta nei Paesi del Patto di Varsavia, oltre a un timer, una sveglietta a batteria marca Emes dalla quale fuoriuscivano due fili elettrici, due detonatori elettrici in alluminio e un oggetto, una staffa semicurva con un interruttore identico a quello trovato a Prati di Caprara dal perito Danilo Coppe. Anche in quel caso, dunque, era in atto un trasporto di esplosivo, anche in quel caso c’era un interruttore artigianale. Non solo. In un’altra circostanza, certamente, fu utilizzato, ma in maniera opposta, l’interruttore di un tergicristallo di un auto per portare a termine un attentato.

Il 2 settembre 1970 la milanese Maria Elena Angeloni, assieme all’amico e compagno cipriota Giorgio Christou Tsikouris, saltano in aria, all’interno di una Volkswagen blu, mentre stanno eseguendo un attentato dinamitardo all’ambasciata statunitense di Atene. Secondo il racconto del capo brigatista Alberto Franceschini, l’Angeloni era stata incaricata dell’attentato da Corrado Simioni che, assieme a Renato Curcio, aveva appena fondato le Brigate Rosse e che, inizialmente aveva pensato a Mara Cagol. In quel caso l’attentato prevedeva che il congegno esplosivo sarebbe stato attivato proprio dall’azionamento dell’interruttore del tergicristallo dell’auto. Ma, anche in quel caso, il congegno era stato studiato male. E i due terroristi saltarono in aria.

Il reperto potrebbe, dunque, offrire un clamoroso riscontro a quanto ipotizzato dall’ex-presidente della Repubblica, Francesco Cossiga che, in un’intervista al Corriere della Sera, l’8 agosto 2008, parlò di un trasporto finito male: ‘La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della “resistenza palestinese” che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese – disse l’ex-ministro dell’Interno – si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivò. In definitiva l’ordigno all’interno della valigia sarebbe esploso accidentalmente mentre veniva trasportato.

Da questo punto di vista va riletta la presenza di diverse persone sospette che si trovavano a Bologna quel giorno, ad iniziare da quelli che, secondo la Stasi, l’ex-Servizio segreto della Repubblica Democratica tedesca, erano terroristi del gruppo dinamitardo di Carlos Lo Sciacallo, Thomas Kram e Christa Margot Frolich.
Anche perché i periti mettono in relazione la strage di Bologna a due attentati compiuti da Carlos in Francia, in particolare quello di Saint Charles del 31 dicembre 1983. E, a proposito del congegno della strage di Bologna, i periti oggi escludono che possa essersi trattato di un detonatore chimico, come invece avevano sostenuto i precedenti periti non avendo trovato tracce di fili elettrici ma confermano, invece, che l’ordigno all’interno della valigia esplosa nella sala d’aspetto della stazione di Bologna era azionato da un congegno elettrico.

Quanto all’esplosivo trovato ora sui reperti della strage di Bologna dai nuovi periti e dai carabinieri del Racis di Roma, le precedenti perizie, in particolare la prima e la terza cosiddette Spampinato (dal nome dell’ufficiale dell’Esercito che faceva parte del collegio peritale in entrambi i casi), infatti, parlavano di circa 20-25 chilogrammi di esplosivo, una quantità dedotta all’epoca sulla base del tipo di esplosivo che si riteneva componesse l’ordigno. Ora non solo la quantità si dimezza e, quindi, vanno rivisti e “riletti” anche gli effetti provocati sia sulle vittime sia sugli edifici e, nel complesso, tutto lo scenario fin qui acquisito ma, appunto, la stessa composizione chimico-merceologica cambia radicalmente giacché , in particolare nell’ultima perizia Spampinato del 1990, si parlava di rilevanti quantità di gelatinato, circa 18 chilogrammi di nitroglicerina ad uso civile, e 5 chilogrammi di cosiddetto Compound B, cioè una miscela di tritolo e T4.

Il rapporto, invece, è ribaltato e la gelatina è solo residuale derivata dalla carica da lancio del munizionamento da cui è stato ricavato, per colatura, probabilmente, l’esplosivo principale. I periti precedenti sarebbero stati tratti in errore dal ritrovamento, che la nuova perizia di oggi non conferma, di solfato di bario, tipico stabilizzante della gelatina, stesso composto, peraltro, dell’esplosivo ritrovato sul treno Taranto-Milano nel depistaggio fatto dai Servizi Segreti il 13 gennaio 1981 verso l’eversione di destra. Il perito Danilo Coppe, incaricato dalla Corte di Assise di Bologna, e gli esperti della sezione chimica del Racis dei carabinieri di Roma, comandata dal colonnello Adolfo Gregori, che lo hanno coadiuvato grazie a macchinari gascromotografici di ultimissima generazione, hanno trovato, invece, stabilizzanti come la acardite e la etilcentralite che riportano, appunto, alle cariche di lancio. Non si può stabilire, visto il tempo trascorso, né il tipo di munizionamento – se aereo, navale o terrestre -né la provenienza geografica – se angloamericano e, in quel caso si parla di Compound B , o europeo, come, per esempio, la tritolite.

Ma è, comunque, una miscela di T4 e tritolo risalente, di questo i periti sono certi, a munizionamento della seconda guerra mondiale. Materiale di cui l’Italia è tuttora piena e che, all’epoca, venne anche affondato dalle varie forze armate negli specchi d’acqua, nei laghi come in mare. L’Adriatico, di fronte alle coste pugliesi, è ancora pieno di questi ordigni che, ogni tanto, i pescatori si ritrovano impigliati nelle reti. E gli stessi carabinieri del Racis, chiamati ad analizzare l’esplosivo utilizzato durante un attentato fatto dalla criminalità organizzata contro una sala giochi in Puglia nel corso del quale perse la vita un giovane hanno ritrovato proprio quel tipo di esplosivo sconfezionato dagli ordigni bellici. Una pratica, quella dello sconfezionamento degli esplosivi dai residuati, che il regista Ermanno Olmi raccontò negli anni ’70 nel film “I recuperanti”.

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