di Monica Di Sisto
“Siamo a un bivio. L’Unione Europea non può permettersi di abbandonarsi a argomenti populisti e protezionisti sulle politiche commerciali, un’area in cui i risultati dell’Ue sono innegabili. Dobbiamo avvantaggiarci della situazione politica odierna nei Paesi del Mercosur e non lasciare che questa finestra di opportunità si chiuda”. Parole della democratica cristiana Angela Merkel che, in una lettera del 20 giugno scorso all’uscente presidente della Commissione Ue Claude Juncker, pubblicata da Politico, intima senza mezzi termini di chiudere prima dell’addio definitivo alla Commissione Ue il controverso Trattato di liberalizzazione commerciale e degli investimenti tra Europa e Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay). Secondo Merkel, apprendiamo, il populismo si batte a colpi di accordi con l’autoritario presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che con il suo arrivo ha accelerato il negoziato in corso da oltre venti anni. I suoi predecessori avevano avanzato lenti, tra timori e resistenze, per i possibili impatti ambientali e sociali legati a una prevista intensificazione degli scambi di prodotti agricoli e alimentari, latte e carni ma anche soia e canna da biodiesel, parti di auto, auto e meccanica. Merkel motiva la scelta, senza tante perifrasi, con “un accesso privilegiato a un mercato di 260 milioni di consumatori per le nostre aziende”, e si porta dietro nella richiesta i premier socialisti spagnolo Pedro Sanchez e portoghese Antonio Costa, il premier della Repubblica Ceca Andrej Babis, duramente contestato in questi giorni per frode, quello della Lettonia Krisjanis Karins, il primo ministro svedese Kjell Stefan Löfven e quello olandese Mark Rutte.
A lei oppone la “controspinta” del premier francese Emmanuel Macron che, unendo la sua firma a quella del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, del premier belga Charles Michel e del loro collega irlandese Léo Varadkar, ha chiesto invece a Juncker di rispettare precisi limiti di mandato: valutare gli effetti cumulativi delle quote negoziate nei vari accordi firmati alla spicciolata dall’Unione, soprattutto sulla tenuta del settore agricolo; una più forte garanzia delle norme sanitarie, fitosanitarie, del benessere degli animali e ambientali; la coerenza politica tra gli obiettivi strategici dell’Ue in materia e le responsabilità in materia di cambiamenti climatici, per evitare il prevedibile dumping ambientale che arriverà alle imprese europee con questa ulteriore liberalizzazione. Al momento, però, le preoccupazioni di Macron sono considerate marginali dai negoziatori e il trattato dovrebbe arrivare indisturbato a conclusione entro la fine della settimana, senza alcuno dei meccanismi di controllo vincolante dell’impatto sulla sostenibilità sociale e ambientale chiesti da molti anni dalle organizzazioni internazionali.
Il governo italiano, che apertamente non si schiera, con il sottosegretario Ricardo Merlo ha parlato con il ministro dell’Economia brasiliano Paulo Guedes a cento rappresentanti delle imprese italiane in missione in Brasile sottolineando che “l’Italia guarda con molto interesse all’evoluzione del progetto politico e economico di Bolsonaro visto che le economie dei due Paesi sono assolutamente complementari”.
Oltre 340 organizzazioni della società civile europea, italiana e del Mercosur, però, hanno messo nero su bianco le loro preoccupazioni contro l’aggravamento delle violazioni dei diritti sociali e dell’ambiente soprattutto in Brasile e nella regione Amazzonica, a seguito dell’approvazione del trattato. L’attacco alle politiche sociali, la chiusura seriale di associazioni e realtà indigene, l’incarceramento e le morti misteriose di attivisti e leader, l’abolizione del dipartimento per le politiche su clima e ambiente, responsabile dell’implementazione dell’Accordo di Parigi suggerirebbero, secondo le oltre 300 realtà, di non correre a chiudere un accordo tanto invasivo.
La stessa valutazione indipendente di impatto del trattato richiesta dalla Commissione europea e chiusa prima dell’arrivo di Bolsonaro alla guida del Brasile, segnala molti potenziali problemi a fronte di uno 0,1% di aumento presunto del Pil europeo in un periodo di 10 anni dall’entrata in vigore nella formulazione più liberista possibile. Per l’Europa il colpo principale lo subirà, e molto secco, il settore agricolo, zootecnico e della trasformazione piccola, media e di qualità, con una concorrenza diretta e insostenibile sui produttori di materie prime e una prevedibile – ulteriore – depressione dei prezzi interni, concentrazione e sottoccupazione. In cambio si facilita un maggiore e più economico accesso delle aziende europee del settore metalmeccanico, chimico e farmaceutico – strategiche per la Germania – al ricco mercato latinoamericano. Il Brasile in particolare, in generale la controparte, lo pagherà in termini di impatti sociali e ambientali, con una più intensa, prevista, deforestazione, e un aumento progressivo delle emissioni contro le quali la valutazione raccomanda di prevedere l’inserimento di un meccanismo di valutazione e monitoraggio.
Al momento, però, nelle bozze circolate informalmente fino a oggi, di meccanismi vincolanti non c’è traccia, e si approfitta da parte europea dell’insensibilità del leader brasiliano alla materia per tenere le mani delle imprese il più slegate possibile. “Un trattato commerciale non può risolvere tutte le miserie del mondo. Ma possiamo creare un contesto per discuterne”, ha tagliato corto la commissaria uscente al Commercio Cecilia Malmstrom che vuole appuntarsi sulla giacca questo successo costi quel che costi. E della presunta “Europa campione dell’ambiente” per il momento è tutto.