Dieci minuti, 600 fatali secondi. Tanto, o meglio, tanto poco è stato, non più di qualche giorno fa, il lasso di tempo che ha separato il mondo da un’operazione militare – il bombardamento per rappresaglia di alcune località iraniane – che minacciava di far di nuovamente esplodere la polveriera mediorientale. E se così non è stato è solo perché – mentre, come in un film di James Bond, le lancette dell’orologio correvano, in un frenetico ticchettio, verso l’abisso – un uomo s’è audacemente frapposto tra noi e la catastrofe. Quell’uomo si chiama Donald J. Trump, come molti degli eroi hollywoodiani è biondo (anche se non proprio d’un biondo naturale) e di mestiere fa, da ormai un paio d’anni, il presidente degli Stati Uniti d’America. È stato lui, quando già gli aerei avevano acceso i motori e i missili erano in rampa di lancio, a disinnescare la bomba e a salvare il pianeta. E lui stesso si è poi altrettanto eroicamente premurato di rivelare, in una serie di tweet, i dettagli dell’intrepida impresa.

I stopped it, ha scritto Donald J. Trump. Io l’ho bloccato (il bombardamento), perché avrebbe causato, secondo quanto calcolato dal Pentagono, almeno 150 morti. Troppi, not proportionate, in rapporto a quella che era stata la “provocazione” dell’Iran (che, com’è noto, aveva abbattuto un drone Usa). We were cocked & loaded to retaliate last night on 3 different sights, eravamo pronti a colpire in tre differenti località, ha proseguito cinguettando il presidente degli Stati Uniti, nell’entusiasmo scambiando il termine “site” – località, per l’appunto – con “sight”, vista (un errore da bocciatura in quinta elementare), e regalandoci, con misteriose finalità, una curiosa variante porno-erotica (“cock” è, notoriamente, una delle più volgari definizioni dell’organo sessuale maschile) della classica espressione “locked and loaded”, bloccato e carico, con la quale i militari usano indicare un arma pronta all’uso. E a impedire che il grilletto venisse premuto è stato, come si diceva, proprio lui, Donald J. Trump.

Splendido. Ma chi era stato, si chiederà a questo punto il lettore, il malvagio personaggio che, prima del provvidenziale intervento di Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, aveva dato l’ordine di bombardare l’Iran? Forse già l’avete indovinato. Questa luciferina creatura altri non era che Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America. È da lui e dalle sue perfide manovre che Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ci ha all’ultimo istante – e per nobilissime ragioni umanitarie – quasi miracolosamente salvati.

È stata (ed è) una lotta senza quartiere quella tra Donald J. Trump e Donald J. Trump. E ha coinvolto l’intera amministrazione. “Questa gente ci vuole spingere verso una guerra”, ha detto Donald J. Trump in un’intervista al Wall Street Journal la scorsa domenica, riferendosi ad alcuni non nominati ma riconoscibilissimi “advisers”, consiglieri di politica internazionale, entusiasticamente selezionati da Donald J. Trump (giusto per fare un nome: John Bolton noto ed incontinente guerrafondaio, oggi consigliere per la Sicurezza Nazionale). Subito aggiungendo: “E la cosa è disgustosa”. Un durissimo giudizio al quale, appena ventiquattr’ore più tardi, Donald J. Trump ha prontamente replicato esaltando le specchiate virtù di Bolton e spiegando come il bombardamento fosse stato non “cancellato”, ma solo “sospeso”. Il tutto minacciando l’Iran – altro che 150 morti! – con una “obliteration”, una cancellazione totale. Come in ogni film dell’orrore che si rispetti, il Male – a garanzia d’un possibile seguito o, come si dice, di un “sequel” – non muore mai. A quando “Trump vs Trump 2, la vendetta”?

Né questa, va detto, è stata l’unica volta che nelle ultime ore Donald J. Trump ci ha salvati da Donald J. Trump. Sempre domenica scorsa, Donald J. Trump ha infatti bloccato – sempre in extremis, come si conviene a un vero eroe – un ordine di deportazione massiva di immigrati illegali – un’operazione tipo Gestapo che avrebbe coperto di vergogna un paese già mortificato dalle storie dei campi di concentramento e dei “bambini in gabbia” lungo la frontiera con il Messico – firmato qualche giorno prima da Donald J. Trump.

Ed è qui, forse, che il mistero di questo titanico confronto tra Trump e Trump comincia a chiarirsi e ad assumere contorni non propriamente logici ma, quantomeno, comprensibili. Molti, nel descrivere questi ultimi avvenimenti, hanno istintivamente riesumato il più noto tra i romanzi che illustrano la lotta interiore tra Bene e Male: La strana storia del Dott. Jekyll e di Mister Hyde di Robert Louis Stevenson, per l’occasione riadattato in un “La strana storia del dott. Donald e di Mister Trump”. Divertente trasposizione. Divertente, ma fondamentalmente errata. Perché?

Perché, come ampiamente dimostrato dalle cronache, il Donald Trump “buono” l’ordine di deportazione l’ha in realtà annullato non per combattere il Male da lui stesso generato, ma perché quell’ordine era – almeno nei tempi e nei modi previsti dal Trump “cattivo” – praticamente inattuabile. E perché proprio per questo, come testimoniato da un reportage del New Yorker, anche le guardie di frontiera vanno ormai “perdendo la pazienza” con una politica migratoria – di entrambi i Donald Trump, in questo caso – caotica, fanfarona e, al tempo stesso, crudele.

In sostanza: la battaglia, nella vicenda dell’Iran come in quella della deportazione – e, in ultima analisi, in tutta la politica presidenziale – non è tra un Trump che cerca il Bene e un Trump che aspira al Male, ma tra un Trump narcisista, sbruffone, prepotente – un personaggio di fatto al di là del bene e del male, perché ignora il significato d’entrambi – e un Trump troppo arruffone, inetto e incompetente per concretizzare quel che progetta.

Due giorni fa a salvare il mondo non è stata la forza del Bene, ma quella della inettitudine. E considerata la posizione che Donald Trump occupa nel mondo, proprio da questo, dalla sua inettitudine, dipendono oggi, in non piccola parte, i destini del pianeta. Se la cosa vi fa rizzare i capelli in testa, non posso che darvi ragione.

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