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La sconfitta di Erdogan a Istanbul e la bomba dei profughi siriani

di Riccardo Cristiano*

Il risultato elettorale di Istanbul può essere letto dando priorità a tanti e diversi aspetti, ma uno spicca sugli altri: il peso della questione siriana. La Turchia ospita infatti un numero enorme di profughi siriani, almeno 4 milioni. Numero approssimativo, del quale non è chiaro se facciano parte i 400mila bambini siriani nati in Turchia da quando l’esodo biblico dei siriani verso i paesi vicini è cominciato. Quando a Istanbul, contravvenendo alle indicazioni del capo, i maggiorenti del partito di Erdogan hanno scelto la ripetizione del voto d’intesa con i soci di maggioranza, difficilmente avevano messo nel conto che nel quartiere che maggiormente li rappresenta in città, Fatih, avrebbero perso. Su Limes, Daniele Santoro ha indicato i numeri sorprendenti della disfatta in questo quartiere-simbolo di Istanbul, assai noto anche ai turisti, rientrando in tutti gli itinerari che per anni hanno accompagnato nel cuore della vecchia Costantinopoli i turisti europei o non: tutto sommato il suggestivo rione di Fatih accompagna facilmente il turista verso il noto Fanar, dove si trova il patriarcato ecumenico. Ebbene a Fatih, popolato da immigrati anatolici, cinque anni fa il partito di Erdogan vinse con uno scarto di 43mila voti la contesa elettorale, pochi giorni fa ha perso: per 300 voti, ma ha perso.

E’ stata l’involuzione dispotica di Erdogan a far cambiare idea ai residenti di Fatih? O è stato il grande afflusso di siriani? Fuggiaschi dal loro paese, molti siriani hanno scelto proprio Fatih giungendo a Istanbul, perché i costumi e la tradizione conservatrice del quartiere li faceva sentire in un habitat a loro familiare, venendo molti di loro dalle campagne siriane, conservatrici come tutte le campagne.

Il vecchio slogan governativo “braccia aperte ai nostri fratelli” è diventato facilmente, nella retorica di tutti i partiti di opposizione, anche del neoeletto sindaco Imamoglou, “espulsione dei siriani”. E l’idea si è divulgata facilmente anche in quelle zone rurali dove la popolazione siriana supera quella locale. Lo stesso partito di Erdogan si è presto adeguato, annunciando che il rimpatrio dei siriani era già allo studio. Ma gli originali sono sempre più forti delle copie, e la linea anti-profughi ha fatto breccia anche a Fatih, rione islamico conservatore, ma provato come se non più di tanti altri rioni meno conservatori dall’asprezza della crisi economica, dalla svalutazione della lira turca, dai rigori di una crisi che il malgoverno aggrava. Il peso della crisi economica a Fatih è enorme. Solo lì? No.

Nel vicino Libano quattro milioni di libanesi hanno sempre più difficoltà a convivere con il milione e cinquecentomila profughi siriani che affollano il Libano. La coperta economica col passare del tempo si fa sempre più corta. Tanto che l’espulsione dei profughi viene invocata ormai quotidianamente. Il ministro degli esteri libanese, Gebran Bassil, è finito nei riflettori di tantissimi media per aver parlato di superiorità genetica dei libanesi. Parole sconvenienti, ma che non hanno creato ripulsa, piuttosto consenso. L’idea che i libanesi non siano arabi, ma fenici, è sempre piaciuta a molti cristiani del Libano, ansiosi di diversificarsi dai loro vicini musulmani, per quanto sappiano che già Erodoto indicava nel Mar Rosso, dove ancor oggi sorge Faniqa, la culla (araba) dei fenici.

Ma ad attirare nell’invettiva del maronita Bassil, ministro degli Esteri e genero del presidente libanese, non è stata tanto la questione genetica, quanto la questione dei profughi, da rimandare, presto e tutti, a casa. In molti paesi dell’est europeo, della famosa rotta balcanica, è andata diversamente da come va a Istanbul e Beirut? Non si direbbe: ma non sono islam o cristianesimo la bussola degli elettori, ma i numeri impressionanti di questa fuga biblica dalla Siria. Una fuga che non è finita. A Idlib, nel nord della Siria, ancora in queste ore si combatte e i 3 milioni di civili che si trovano tra il fuoco degli ultimi (forse 100mila) jihadisti lì asserragliati e l’esercito siriano che vuole riprendersi quei territori fuggono disperati verso il confine turco, chiuso ovviamente: lungo quel confine vivono senza alcun sostentamento né campi profughi (gli esistenti sono tutti stracolmi) già 3/400mila fuggiaschi, così, sotto gli alberi. E se la battaglia si espandesse il loro numero aumenterebbe, visto che i civili lì intrappolati sono generalmente contati in circa 3 milioni.

La domanda che si impone è dunque una: come potranno questi milioni di siriani, aggiungendovi almeno un milione di rifugiati in Europa e i 3 milioni di Idlib, tornare attivi nel loro Paese? Come evitare che diventino in tutto nove o dieci milioni di esuli, visto che ci sono anche i siriani profughi in Giordania? Cosa ha determinato questa bomba demografica, da anni e negli anni? Stiamo parlando di un più del 50% dell’intera popolazione nazionale. Questa bomba umana sta destabilizzando tutto il bacino euro-mediterraneo e le sue scosse fisiche e politiche si espandono. O si risponde alla domanda “cosa gli consentirà  di tornare in sicurezza nel loro paese e avviarne con il sostegno della comunità internazionale la ricostruzione?” o questa bomba umana incendierà l’intera area, e forse non solo.

* Vaticanista di RESET, rivista per il dialogo