A tutti, o quasi, piacciono le olimpiadi. Ma qualcuno le apprezza per i motivi sbagliati. Non vi cerca l’emozione del trionfo sportivo, la sfida agonistica sciolta all’ultimo secondo, la commozione della bandiera e dell’inno nazionale. E’ probabile che qualcuno durante la cerimonia di assegnazione della sede olimpica invernale del 2026, mentre si celebrava il trionfo di Milano-Cortina, sia scoppiato in una risata simile a quella degli imprenditori sciacalli nel cuore della notte del terremoto in Abruzzo. Il pretesto della loro felicità non è stato così ignobile, non si associa ai lutti di una catastrofe ma a una festa sportiva. E’ il riso di chi pregusta affari sporchi e profitti facili.
Molte olimpiadi del passato si sono rivelate una generosa mangiatoia per pochi eletti, al pari di altri eventi sportivi che hanno lasciato traccia più duratura nelle voragini dei bilanci pubblici che nel medagliere. Brilla il caso di Montreal, nel 1976 sede canadese di quelle che furono battezzate le “olimpiadi della bancarotta”, con costi finali 12 volte superiori a quelli preventivati e un debito saldato soltanto 30 anni dopo – incidentalmente, stessa città nella quale una commissione d’inchiesta ha certificato la prassi di pagare tangenti nei lavori pubblici fino a farne lievitare sistematicamente il costo del 30 per cento truccando l’algoritmo di calcolo del valore dell’opera.
Paese che vai, fallimento che trovi: lo Stato di Rio de Janeiro dopo le olimpiadi del 2016 ha dichiarato bancarotta, mentre il comitato organizzatore ha ancora decine di milioni di euro di debiti da saldare. Persino Londra nell’organizzare i giochi del 2012 ha visto quadruplicare la spesa inizialmente ipotizzata. Per restare a casa nostra, vanno arrugginendo nell’incuria molti dei sovradimensionati impianti realizzati in occasione delle olimpiadi invernali di Torino 2006, uno spreco da centinaia di milioni di euro. E si potrebbe scrivere un manuale sulle scientifiche spartizione partitiche delle tangenti pagate per realizzare gli stadi dei mondiali di calcio di Italia 90, nell’età d’oro pre-Tangentopoli.
Uno studio sugli eventi olimpici tra il 1960 e il 2012 ha dimostrato che nella totalità dei casi – senza eccezioni – vi sia stato uno sforamento rispetto al budget iniziale, con una crescita media dei costi accessori rispetto alle stime pari a uno strabiliante 179% – quasi il triplo. Quanto di questi extra-costi sia imputabile a mazzette e ruberie non ci è dato saperlo, ma qualche sospetto è lecito. Di certo il bilancio previsionale del dossier Milano/Cortina ipotizza spese per 1 miliardo e 271 milioni di euro: applicando la percentuale di “incremento medio” osservato nelle olimpiadi degli ultimi 50 anni possiamo attenderci un possibile (probabile?) buco ulteriore di circa 2 miliardi e 173 milioni di euro. Moneta che sarà prelevate dalle casse pubbliche. In anni di crisi i giochi olimpici vengono presentati alla pubblica opinione come capaci di auto-sostenersi finanziariamente, tra contributi del CIO, biglietti, sponsorizzazioni, ma questo vale solo in assenza di extra-costi, che nel caso italiano – a differenza della virtuosa Svezia, dove la municipalità di Stoccolma non si è neppure sognata di fornire garanzie – ricadranno sulle spalle degli enti pubblici: lo Stato per le spese di sistema (sanità, sicurezza, intelligence), le Regioni organizzatrici per tutto il resto. Chissà se nell’esaltazione del trionfo qualche contribuente lombardo o veneto ha avuto un brutto presentimento.
I fattori di vulnerabilità del grande evento sportivo agli appetiti di corrotti e corruttori sono noti e ricorrenti: la lancette che ticchettano, implacabili, verso la cerimonia di inaugurazione, trasformando qualsiasi inciampo realizzativo, tecnico o burocratico – pressoché inevitabile in opere complesse – in un’emergenza che discioglie miracolosamente lacci e laccioli di procedure e controlli. E poi l’unicità delle realizzazioni necessarie, che induce una selezione obbligata di pochissimi interlocutori imprenditoriali e professionali, cancellando qualsiasi ipotetico beneficio di una reale concorrenza nella scelta degli esecutori. Ancora, la valenza simbolica dell’evento, palcoscenico e vetrina di regimi e autorità politiche, che normalmente non badano a spese nel pavoneggiarsi davanti al mondo e al proprio elettorato. Ne consegue una tendenza al gigantismo sterile delle opere, cattedrali nel deserto o siti fantasma predestinati. Fa rabbrividire lo scenario post-atomico dei dei siti olimpici inutilizzati e ormai spettrali di Atene 2004, quei giochi che con le loro spese fuori controllo avrebbero contribuito non poco alla devastante crisi finanziaria che di lì a poco avrebbe affossato lo Stato ellenico.
Non rassicura affatto l’approccio dirigista adottato in Italia, apparentemente improntato a quella “eccezionalità” istituzionale che la nostra storia ci insegna essere altamente criminogeno. Si profila l’approvazione in tempi brevi di una “legge olimpica” che sancirà – c’è da temere – l’attribuzione dei consueti poteri straordinari a una figura dirigenziale che si vuole sciolto dalla politica, ma sarà selezionato (e presumibilmente contiguo) ai politici che lo nomineranno. E al comitato organizzatore si affiancherà l’ormai immancabile società privata per gestire in modo “agile e snello” spese e risorse, slalomando tra i meccanismi di controllo con piglio manageriale, nel peggiore dei casi con discrezionalità irresponsabile.
Non esiste una ricetta unica per prevenire le possibili distorsioni criminali dei processi decisionali che accompagnano la realizzazione degli impianti olimpici. Piuttosto, si può immaginare un ventaglio di suggerimenti, sotto forma di decalogo.
1) Valorizzare e riqualificare le strutture esistenti, stando alla larga dalla tentazione di mega-opere con altissimi costi futuri di mantenimento.
2) Aprire e tenere ben spalancati in ogni fase della realizzazione i possibili canali di dialogo, ascolto e partecipazione con le popolazioni per raccogliere istanze e proposte.
3) Calibrare accuratamente ogni intervento in base ai bisogni dei territori interessati.
4) Cominciare fin d’ora a lavorare alacremente, a testa bassa, per superare i necessari passaggi amministrativi e autorizzativi – da razionalizzare, non da evitare.
5) Scongiurare la corsa affannosa contro il tempo, programmando ampi margini di sicurezza per la conclusione dei lavori, per evitare procedure emergenziali, reali o artificiosamente indotte.
6) Favorire una reale apertura concorrenziale delle gare a livello europeo e internazionale, alla larga dalla retorica nazionalista del “prima le imprese italiane”.
7) Applicare le “buone pratiche” costruite in occasione di altre analoghe esperienze, come gli “accessi interforze” ai cantieri avviati dopo la scandalo Expo, citati anche dall’Ocse come efficace strumento anticorruzione.
8) Istituire una struttura di controllo dedicata – candidato naturale l’Autorità nazionale anticorruzione – per avviare un percorso di “vigilanza cooperativa” nelle gare d’appalto olimpiche.
9) Dare fiducia ai funzionari e ai decisori pubblici, cercando di costruire un clima di collaborazione virtuosa coi soggetti privati cui saranno affidate funzioni e attività
10) Come comandamento sarebbe il settimo, ma in questo caso vale come conclusione obbligata del decalogo: non rubare.
Finisce qui questo elenco illusorio di buone intenzioni, ad accompagnare l’auspicio che nell’esperienza olimpica appena avviata la squadra italiana non si appenda al collo, una volta tanto, la medaglia d’oro della corruzione.