di Mattia Musio

Il vento sposta i ciuffetti più lunghi. Le gocce d’acqua sparse sul campo si aggrappano ai singoli fili d’erba, come koala che si arrampicano sugli alberi. Le palline escono dai tubi e si poggiano sul morbido tappeto, sperando di restare là a riposare il più a lungo possibile, soddisfacendo quel contrasto cromatico estivo.

È tornato il periodo più bello della stagione. I sacri campi di Church Road aprono i battenti per le due settimane più alla moda dell’anno. Non esiste, da un punto di vista esclusivamente estetico, un’altra manifestazione sportiva come Wimbledon. Due settimane in cui Londra mette il vestito buono, e diventa oasi tennistica per tutti gli appassionati.

Ma non solo: a luglio Londra diventa riparo semi-immaginativo per chi la stagione su terra non riesce proprio a farsela piacere: polverosa, estenuante, ripetitiva. Mesi e mesi in cui i tennisti giocano a chi è il più resistente, in uno sport quasi primitivizzato, sempre più tendente alla lotta greco-romana. Allora che Dio benedica le due settimane londinesi (1-14 luglio), unico momento di pace per i tennisti ancora restii alla muscolatura da bodybuilder, quelli che prendono la racchetta in mano con la sensibilità del pittore e il suo pennello. Del musicista e la sua chitarra. Le due settimane in cui lo strumento principale non è più un simil-cannone, e la palla non più una simil-bomba che tocca terra e rimane bassa, sporca, pesante, lenta. A Wimbledon schizza via, impazzita, baciata dal manto. E non la prendi se non sei agile, se non capisci in anticipo il rimbalzo. Così il match diventa scontro di fioretto, dibattito di ideali. Un posto incantato in cui qualunque sia il tuo nome devi indossare un completo bianco, perché così vuole la tradizione, perché così è più bello da vedere in mezzo a tutto quel verde.

Che siano benedetti allora i tennisti che hanno fatto, di questa stagione erbivora, un appuntamento immancabile, una vetrina di esposizione. Bentornati ai Dustin Brown, ai Roger Federer (quello vero) in un’oasi naturalistica in cui essere se stessi senza avere il timore di partire svantaggiati, sotto il segno di Michaël Llodra e Stefan Edberg.

A Wimbledon il tennis smette per due settimane di diventare braccio di ferro e torna ad essere tavolo di riattualizzazione di arti estinte: unico periodo dell’anno in cui si può vincere set e partite intere grazie al serve and volley, senza che sembri strano (o vintage) attuare questa strategia. Per questo l’erba è Wimbledon, ma non viceversa. Wimbledon non è erba, o almeno non solo. Wimbledon è un rifugio di poeti, è ritorno al passato, è Rinascimento perenne in uno sport affetto dal morbo della continua rimodernizzazione. Lo stesso torneo che si giocava 50 anni fa. Con un manto, e un pubblico, che continua a preferire un determinato tipo di giocatore: quello senza paura. Lunga vita alla regina dunque, e a Wimbledon. O meglio, The Championships.

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