Mentre la vita in superficie al Cairo scorre regolare, ciò che accade sotto, tra le pieghe della democrazia violata, spaventa. La differenza tra sopravvivere e finire nei guai è sottilissima nella caotica e tentacolare capitale egiziana. Capita così che un pugno di uomini, di attivisti per qualcuno e sovversivi per altri, decida di riunirsi e gettare le basi per un movimento politico di speranza e rinascita. Capita anche, purtroppo, che questa riunione tra avvocati, giornalisti, sindacalisti e professionisti in genere di ispirazione comunista e di sinistra, finisca con l’attirare le attenzioni del ‘Grande Fratello’ egiziano. In otto, tra la tarda serata di mercoledì e la mattinata di giovedì, sono stati prelevati dalle rispettive abitazioni, portati nelle rispettive stazioni di polizia territoriali e quindi trasferiti in carcere. Tra loro il noto avvocato Ziad el-Elaimy, i giornalisti Hisham Fouad, Hossam Moanes e altri, rei di aver avuto la folle idea di mettere in piedi un nuovo movimento politico chiamato ‘Coalizione della speranza’. Obiettivo, presentare le candidature al via delle prossime elezioni Parlamentari (le presidenziali-farsa si sono tenute tra il 26 e il 28 marzo 2018, il confermato al-Sisi ha ottenuto il 96% dei consenti, l’unico rivale, di un partito che sostiene quello del presidente, ha preso meno voti delle schede nulle), fissate per il 2020.

In un Paese dove lo spionaggio è di casa, dove ci sono occhi ed orecchi ad ogni angolo di strada, la notizia di questa adunata sediziosa di ‘estremisti’ non è passata sotto traccia. Da qui i blitz orchestrati dal regime e messi in atto, casa per casa, dalla Sicurezza nazionale, la stessa sezione di polizia dietro la sparizione e il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni. Lui, appassionato di diritti umani, di sindacati indipendenti, degli ultimi insomma. Certo, Regeni non sarebbe stato contento di sapere che la quasi totalità dei lavoratori di cui voleva difendere i diritti sono stati trasferiti, assieme alle loro merci, lontani dalle zone di vendita. Molti di loro, addirittura, hanno abbandonato il mestiere o sono semplicemente scomparsi. Gli street vendors del Cairo, i venditori ambulanti, la categoria di cui lo studente friulano si stava occupando nel suo dottorato, commissionato dall’Università di Cambridge.

C’è stato un prima e un dopo rapimento e omicidio del nostro connazionale, il corpo ritrovato il 3 febbraio 2016, e, tra i tanti effetti provocati da quello choc, vanno messe in fila anche le conseguenze per quel particolare settore sindacale. Venditori ambulanti, o meglio, venditori di strada, a contatto diretto con la vita quotidiana della capitale egiziana. Sempre presenti, fissi, in mezzo alla polvere e al rumore del caos cairota.

Nel post-rivoluzione di piazza Tahrir del gennaio 2011, i venditori ambulanti sono diventati soprattutto gli ‘Occhi’ del regime; prima, ma solo per un breve lasso di tempo, della Fratellanza Musulmana dell’ex presidente Mohamed Morsi, stroncato dieci giorni fa da una presunta crisi cardiaca durante un’udienza in tribunale, poi di Abdel Fattah al-Sisi: “Il governo ne ha infiltrati a decine all’interno della categoria, snaturandone la funzione, meramente commerciale. Nessuno ha mosso un dito, i servizi di sicurezza hanno piazzato i loro uomini senza incontrare ostacoli e in poco tempo hanno provocato danni, in molti casi irreversibili. Tra questi il contatto ‘malato’ in cui si è imbattuto Giulio. I sindacati autonomi sono sempre stati piuttosto ‘artificiali’, ossia infiltrati da informatori del regime. La povertà, la necessità di mantenere una famiglia spesso spinge le persone ad abbracciare qualcosa di eticamente sbagliato, ma remunerativo”.

A parlare è un autorevole membro del panorama sindacale egiziano che, visto il clima attuale di forte e sommersa repressione, preferisce mantenere l’anonimato. Il nostro contatto parla di Giulio e, ovviamente, si riferisce a Mohamed Abdallah, referente del sindacato autonomo degli ambulanti del Cairo, in realtà infiltrato dai servizi di sicurezza, come poi emerso dai fatti, al di là di ogni ragionevole dubbio. Alla vigilia del secondo anniversario del rapimento di Giulio Regeni all’interno della metropolitana del Cairo – nel tragitto tra la stazione di El-Bahoos, a 300 metri dall’appartamento di Giulio, e quella di Mohamed Naguib, Downtown Cairo – la pubblicazione del video, registrato da Abdallah in esterna, in cui il presunto sindacalista chiedeva soldi al ricercatore italiano, ha indirizzato e confermato i sospetti. Quel filmato ha fatto il giro del mondo e  rappresentato la firma sull’omicidio di Regeni e messo Abdallah nella scomoda posizione di capro espiatorio, costretto a togliersi la maschera e dissolversi nel nulla. Gettato in pasto all’opinione pubblica, un fatto di comodo per le alte sfere militari e di pubblica sicurezza.

La conferma ce l’ha data lo stesso Abdallah, contattato dal Fatto proprio in quei giorni: “Non voglio più saperne di questa storia, io non c’entro nulla con la morte di Regeni. Sono stato incastrato e adesso sono rovinato”, aveva raccontato in maniera poco convincente. Usato e poi messo da parte. Da allora è sparito dai radar, non solo del sindacato, ma della vita sociale stessa: “Mohamed Abdallah era il prototipo perfetto dell’informatore di strada, pedina ideale a favore dell’intelligence – aggiunge il funzionario sindacale del Cairo -. Il suo ruolo era quello di captare eventuali rischi esterni per la tenuta del regime e renderli noti alle alte sfere. Così ha fatto con Regeni, travisando completamente la reale portata della minaccia rappresentata dallo studente italiano. A quel punto Abdallah si è bruciato e doveva soltanto essere messo da parte. Credo che molti vorrebbero vendicarsi di quanto ha fatto, della sua delazione, io stesso se potessi, ma la natura delle persone è diversa. Da allora di lui non si sa nulla, non fa più parte di alcun sindacato, tanto meno dei venditori ambulanti e di lui si sono perse le tracce. In fondo non è scomparso soltanto lui, ma è praticamente sparito gran parte del mondo sindacale egiziano. Gli street vendors? Sono stati tutti spostati altrove, lontani dalle zone centrali, in periferia”.

Giulio Regeni e Mohamed Abdallah si sono incontrati parecchie volte, al punto da diventare quasi amici, quanto meno buoni conoscenti. La sera del video rubato dall’informatore dei servizi i due si trovavano nell’area del mercato Ahmed Helmy, nei dintorni della stazione ferroviaria di Ramses, al Cairo. In quel quartiere, molto popolare, le bancarelle affollavano gli spazi, ma dopo l’affaire Regeni ne sono rimaste pochissime: “Come tante ce n’erano a Taalat Harb (quartiere commerciale a due passi da piazza Tahrir, ndr.), ma anche in zone periferiche e densamente abitate, penso ad Helwan, a sud del Cairo, e nella grande municipalità di Giza. Durante il periodo del ramadan, tra il 2016 e il 2017, quando l’attività commerciale è limitata rispetto al resto dell’anno, il grosso del fronte degli ambulanti è stato messo da parte e dirottato in quartieri della città non così affollati di gente e remunerativi e dove, dunque, vendere e sopravvivere non è così agevole. La leadership del sindacato autonomo degli ambulanti è stata smantellata, così come la quasi totalità del sistema sindacale autonomo. In effetti, oggi, non resta più quasi nessuno ad occuparsi dei diritti, veri e reali, dei lavoratori in Egitto”.

Oggi, a quasi tre anni e mezzo dalla scomparsa di Giulio Regeni, avvenuta la sera del 25 gennaio 2016, col corpo martoriato ritrovato al margine dell’Autostrada ‘Cairo-Alessandria’ la mattina del 3 febbraio, non è stata trovata alcuna verità giudiziaria su quel crimine e il mondo sindacale egiziano è smembrato. Della parte indipendente non restano che rare tracce, rappresentate da settori come quello immobiliare, legato alle costruzioni, e gli insegnanti. Gli altri sono scesi a più miti consigli, entrando a far parte della federazione governativa, occupandosi delle semplici questioni di tutela dei diritti basilari del lavoro, perdendo, tuttavia, la vena squisitamente politica e d’impatto nei confronti del potere: “Con scarso peso contrattuale e di rappresentanza, inutile restare e portare avanti battaglie destinate al nulla – spiega il sindacalista del Cairo -. Non si contano gli spostamenti dalla parte indipendente a quella governativa di tanti funzionari e di dipendenti in genere. I due gradi del sindacato ormai non esistono più, tutto si sta uniformando, a parte sporadiche realtà forti e vincenti. Penso ai medici, una categoria numerosa (circa 200mila nel Paese, ndr), unita e capace di portare avanti istanze pur restando all’interno dell’ufficialità del movimento. A capo di quel sindacato c’è una donna forte, Mona Mina, andata in pensione da circa un anno come medico pediatra, eppure sempre presente nella lotta per la tutela dei diritti della categoria. Una donna con la schiena diritta, senza paura, anche se c’è di che aver paura in un Paese come questo, dove i sindacalisti sono a rischio: o ti uniformi al comune sentire e smetti di fare politica, altrimenti rischi di finire in prigione. Di recente diversi sindacalisti hanno subìto attacchi, ad altri sono arrivati segnali inequivocabili di una libertà appesa ad un filo”.

Sindacati col bavaglio. E la politica? Il quadro è disarmante. Dei principali candidati che avevano annunciato l’intenzione di correre alla presidenza nel gennaio 2018 per sfidare Abdel Fattah al-Sisi tutti si sono ritirati, volenti o nolenti. Il generale Sami Anan, ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito, è stato arrestato in quei giorni pre-elettorali, assieme al suo vice, Hicham Geneina, e da allora si trovano in carcere. Ahmed Shafiq, ex primo ministro, si è ritirato dalla corsa ancora prima; stesso discorso per Mohamed Anwar al-Sadat, nipote dello storico presidente assassinato al Cairo nel 1981, il quale ha riferito di aver ricevuto minacce che lo avrebbero spinto a mollare la corsa. Infine Khaled Ali, avvocato e attivista dei diritti umani, l’ultimo ad annunciare il ritiro dalla corsa dopo aver ricevuto pressioni e intimidazioni.

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