Università di Catania, veleni e concorsi pilotati. Un’onda anomala che arriva e spazza tutto. Poi seguono gli sciacalli a ripulire ciò che la furia dell’acqua non è riuscita a distruggere. Quasi sicuramente succederà così, ed è questa la colpa principale che va ascritta alle persone che, tradendo ogni deontologia professionale, intendono l’università come “cosa nostra”.
Non abbiamo ancora letto l’ordinanza dell’inchiesta catanese, seguirà un processo, vi saranno condanne – speriamo – a carico di chi ha pilotato concorsi e assunzioni, ma una cosa è certa, e dovrebbe essere ribadita, anzi due, da ribadire entrambe.
1. La prima è che il bagno di “serietà”, “rigore”, “meritocrazia” promesso dalla riforma della 240/2010 (volgarmente detta “legge Gelmini”), non è stato un bagno, bensì una spolverata di ulteriori adempimenti amministrativi che non ha cambiato di una virgola l’organizzazione apicale delle università italiane, anzi: ne ha rispettato gli equilibri di potere, enfatizzato il ruolo degli “uomini soli al comando” (i rettori), reso molto più difficoltoso un controllo sui vertici non diciamo democratico – non sia mai! – ma almeno condiviso tra più organi che invece sono stati depotenziati e svuotati.
Hanno inventato i ricercatori di tipo A, quelli di tipo B, le verifiche sull’efficienza didattica del dipartimento, misurazioni e medie e tabelle di efficienza, così efficienti; hanno eliminato le facoltà; hanno privilegiato il rapporto tra Ministero e la Conferenza dei Rettori delle Università italiane (Crui) rendendo ancora più piramidale e adamantino il sistema; hanno inventato la valutazione della ricerca numerologica e creato l’Agenzia Anvur, si sono scervellati per rendere i “concorsi” più corretti e verificabili ma la testa del serpente è rimasta quella: un ordinamento gerarchico chiuso, ristretto, una governance con poteri ampliati dalla 240, unica responsabile dei Consigli di Amministrazione degli Atenei in cui regnano pochi monarchi in grado di “giudicare e mandare” e modificare a loro piacimento anche i concorsi già fatti – che possono essere sottoposti a valutazione ex post con metodi discutibili (l’arma finale: se un concorso non soddisfa chi di dovere, c’è sempre il modo per cambiarne l’esito ex post). Alla base, una vasta platea di gente che cerca di fare il proprio lavoro coscienziosamente e correttamente, accompagnata dal refrain “tutti baroni”.
Eh no; i baroni non sono la stragrande maggioranza delle persone che mandano avanti il sistema; i baroni sono quelli che, nella convinzione di un’impunità pressoché assoluta garantita dall’omertà di una categoria quasi sempre silenziosa, gestiscono pratiche e procedure con disinvoltura colpevole. Quei rettori che “fanno rete” e pensano che i concorsi siano roba loro e dei loro amici e sodali, da gestire in solitaria, da decidere prima a tavolino pilotando commissioni e valutazioni.
2. La seconda è una derivazione di quanto scritto: contro ogni evidenza, il sistema non è tutto marcio. Ci sono persone che pensano e credono che fare ricerca sia prima di tutto cercare di lavorare bene e cercare di emergere nel proprio campo, le prime vittime di un sistema che invece deprime the best and the brightest e sceglie la mediocrità servile.
Ci sono persone che pensano e credono che eliminare i diversi contratti e ruoli della formazione e della docenza attualmente presenti in Italia (assegnisti di ricerca di tipo A, assegnisti di ricerca di tipo B, ricercatori di tipo A, ricercatori di tipo B, prof. associati, prof. ordinari) sia l’unico modo per evitare storture abnormi e sagre della valutazione, post-valutazione, pre-valutazione: altrettante occasioni per orientare esiti e “concorsi”.
Una soluzione vi sarebbe, e la proponiamo da anni, derisi, sbeffeggiati, spesso dagli stessi che poi banchettano con commissioni, commissari, verbali per gestire sei diverse opportunità di ingresso o promozione nella carriera. Una soluzione semplice, assurdamente semplice: un’unica posizione pre-ruolo, dopo il dottorato (che non è un contratto di lavoro, come spesso si pensa, bensì un corso di formazione avanzata), e poi un’unica figura di professore, per la quale gli avanzamenti siano solo stipendiali e sottoposti a serie valutazioni ad personam, così come succede già adesso per la magistratura. Utopia? Forse l’unica strada per evitare omertà, servilismo e nepotismo, un trinomio perverso che in alcune realtà, come sembra mostrare il caso catanese, è la norma. Sarebbe l’unica riforma vera, reale, in grado di scassare un sistema post-Gelmini che, moltiplicando i gradi della “gerarchia” di fatto esistente negli Atenei, ha anche moltiplicato le occasioni di dolo.
Infine, rendersi conto che se il “controllo sociale” sulle procedure scorrette non parte dagli Atenei, la magistratura arriva quando ormai il danno più grave è stato fatto. L’autonomia universitaria è un grande valore, che lo sia realmente. Oltre alla sanzione amministrativa e legale dovrebbe esserci il disdoro della comunità scientifica verso quei cialtroni che gettano fango sull’attività scientifica, quelli che si considerano élite e invece sono solo schiuma, quella che tiri via perché dà un sapore amaro al brodo.
O l’Università trova in sé gli anticorpi naturali contro questa deriva del merito di Al Capone oppure ci saremo meritati il peggio del peggio che ci potrà capitare. E che ci capiterà.