Il quadro del Paese che emerge in questo primo torrido scorcio di estate è allarmante. Lo è non tanto per le uscite, ormai assolutamente prevedibili, del signor Salvini o della signora Meloni o per la servile acquiescenza di quel che resta del fu Movimento 5 Stelle.

Ad allarmare è il sentire che coinvolge una fetta larga dell’opinione pubblica. Quello che allarma è il desiderio diffuso di un uomo forte al comando, uno che decida per tutti e che sollevi gli italiani dalla fatica della democrazia, dal peso della cittadinanza. Ma non solo, inquieta questo fastidio per la democrazia, vista come un complesso inutile di vincoli e controlli, di pesi e contrappesi che, agli occhi di molti, non servono a garantirci dall’arbitrio, ma solo ad ostacolare decisioni rapide e semplici: la semplificazione dei processi decisionali unita alla semplificazione, da bar, delle soluzioni a problemi complessi. Questo unito ad una violenza ormai incontrollabile contro chiunque rappresenti un valore in qualche modo ascrivibile alla civiltà, al diritto e persino al semplice buon senso.

Violenza, rabbia che non nascono solo dalla crisi, visto che arrivano anche e soprattutto da ceti medi, non certo disperati. Nessuna guerra tra poveri (o quando vi è risulta marginale), bensì la guerra dichiarata da un egoismo che si sente minacciato da tutto e da tutti, che cerca rifugio nel peggio, evocato ed invocato come barriera a qualunque ipotetica minaccia. Il protagonista di questa stagione che ci porterà quasi certamente alla perdita delle libertà democratiche, è ancora una volta lui, il piccolo borghese che trema di paura nel chiuso delle propria botteguccia o barricato del proprio dignitoso condominio, dove le sue paure si incanalano su sentieri tracciati e prevedibili, verso un soggetto da odiare.

Non è un odio eclatante, è espresso sempre con parole pacate, fintamente sofferenti, senza mai esporsi troppo. Piccole cellule di odio, che si installano e che metastatizzano sul corpo sociale, che poi esplodono come bubboni purulenti a spargere i germi di questa peste. Il popolo degli odiatori guarda il mondo reale ma non lo vede, non ne trae alcuna esperienza. Accolgono il “sentito dire”, la narrazione di comodo dei propagandisti e dei venditori di paura. E quel sentito dire lo difendono ottusamente. Non importa se la realtà dei fatti racconta una verità diversa.

A quasi nessuno di costoro, ad esempio, è mai personalmente accaduto nulla di male: non hanno subito violenze, furti, stupri o cose del genere, eppure tremano all’idea di uscire di casa. Se a loro non è capitato niente – dicono a chi gli fa notare la contraddizione – di sicuro sarà capitato a qualcun altro.

Così il nemico diventa ogni essere che opponga la ragione e dati di fatto verificabili alle poche semplici certezze veicolate dai social e dalla propaganda ipersemplificata. Buona parte dell’opinione pubblica italiana si rifiuta di vedere la realtà quando questa contraddice i pilastri sui quali si lega il rapporto di scambio classico: paura in cambio di odio.

Negli anni 20 del secolo scorso la paura era quella dell’ipotetica rivoluzione bolscevica, oggi la si sostituisce con l’invasione dei migranti. Il risultato è sempre quello di applaudire ai manganellatori di ieri e di oggi. Rifugiarsi dietro la camicia nera o verde, farsi proteggere dal branco. Abdicare al diritto e applaudire all’arbitrio.

L’odio è il pagamento immediato, pronta cassa. Ma non serve a placare la paura, quella rimane, sta lì indisturbata e l’amplificazione di ogni banale episodio di cronaca, la alimenta sapientemente.

L’odio serve ad altro. Serve a scaricare il proprio fallimento senza mettersi mai in discussione, senza farsi mai carico delle proprie responsabilità, della propria sciatta pigrizia. La miseria di una vita grigia, l’insoddisfazione di chi pensa di aver diritto a ben altro, di dover occupare un posto più gratificante e guarda con frustrazione alla posizione nella quale si trova a vivere.

Frustrati e falliti di ieri che si saldano con giovani ignoranti, arrivati dalla pancia flaccida del Paese, spesso persino incapaci di parlare, non dico l’Inglese ma neppure un italiano corretto. Ignoranti del mondo, costoro accedono mediocremente al pezzo di carta (perché questo purtroppo in larga parte sforna un’università italiana malata e corrotta), grazie ai sacrifici di famiglie che investono sul mito della laurea le poche risorse che hanno, senza però accedere ad una preparazione che li renda competitivi sul mercato del lavoro.

Depositari di speranze mal riposte e mal coltivate, esprimono frustrazione e rancore contro i pochi che invece ce la fanno (di sicuro perché raccomandati), che diventano odio contro ogni forma di conoscenza, contro la stessa ragione e soprattutto ricerca di un pezzente a cui schiacciare la testa.

L’odio che si sdogana sui social, si lega alla violenza, che rapidamente dalle piazze virtuali sta passando a quelle reali. Gli episodi di brutalità si moltiplicano verso chi rappresenta valori positivi, ma anche e soprattutto contro chi appare debole, indifeso. Violenza sempre di gruppo, vigliacca. Violenza sempre giustificata, compresa, sminuita dalla comunità di appartenenza.

La tolleranza con chi vuole distruggere la nostra civiltà, la nostra democrazia, ma soprattutto la convivenza civile, non è lecita, anzi sarebbe totale complicità e dunque sarebbe criminale.

Questa Italia vigliacca, un po’ miserabile, mi preoccupa, mi fa paura e mi fa vergognare.

Lo dico chiaramente, essere italiano oggi mi pesa, mi fa sentire fuori posto. Vorrei ritrovare il mio Paese, ma in questa palude di nebbia trovo solo zombie affamati di carne umana. Mi dispiace ma  con costoro non trovo spazio di dialogo e neppure di tolleranza. Credo che ci si debba separare, dividere traumaticamente tra noi e loro. Tra la civiltà e l’odio. Come nella Storia sempre ci si è divisi.

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