di Alberto Barbieri*

La vicenda umanitaria, politica e mediatica della Sea Watch riassume nel modo più emblematico il cul de sac in cui la questione migranti ha affossato l’Europa. La prospettiva umanitaria ci impone innanzitutto di ribadire ciò che dovrebbe essere auto-evidente, e cioè che se ci sono 53 persone in mezzo al mare, in pericolo di vita e in fuga dai lager libici, l’unica cosa sensata e degna da fare è soccorrerli e farli sbarcare il prima possibile in un porto sicuro (non ovviamente la Libia, che solo la malafede o una totale ignoranza dei fatti possono portare qualcuno a definire “sicura”). Nessuno scontro politico giustifica chicchessia a giocare sulla pelle di queste persone. Né tantomeno è accettabile ridurre alla stregua di criminali coloro che operano i salvataggi, che pure possono commettere errori come chiunque in condizioni tanto critiche e con i quali è lecito dissentire, a condizione che tale dissenso sia frutto di un ragionamento e non di un odio preconcetto. Ricordiamo, tra l’altro, che le operazioni di search and rescue delle navi delle Ong coprono il vuoto vergognoso lasciato dagli Stati europei in quel tratto così critico del Mediterraneo centrale.

La prospettiva politica richiede d’altra parte chiarezza e onestà intellettuale. Il fenomeno migratorio contemporaneo, di proporzioni assolutamente inedite, è il segno di problemi globali che minacciano di esaurire le risorse e il futuro stesso del nostro pianeta: dai cambiamenti climatici ai gravissimi squilibri socioeconomici, dalla crescita demografica ai conflitti geopolitici. Da questi fenomeni deriva la forza di propulsione per una migrazione forzata imponente, a cui seguono poi le atrocità che si consumano sulle attuali rotte migratorie gestite da innumerevoli reti criminali; in particolare nel cuore di tenebra di questo fenomeno che è oggi la Libia.

Ciò che avviene nel Mediterraneo è dunque l’ultimo anello di una catena di efferatezze consumate ai danni di centinaia di migliaia esseri umani in fuga e se si vuole pertanto cercare di affrontare il problema con la speranza di ottenere qualche risultato tangibile, è necessario farlo a monte. I salvataggi nel Mediterraneo, pur se necessari, non possono che essere sempre e comunque delle misure tampone, non in grado di arginare una tragedia di queste dimensioni sul lungo periodo. Nel 2016, quando in mare c’erano decine di navi umanitarie gestite dalla Ong e dalle operazioni dell’Unione europea, i morti in mare sono stati più di 4mila. Nel 2019, sebbene le morti nel Mediterraneo centrale siano drasticamente diminuite, sono diminuite in modo altrettanto drastico le partenze dalle coste libiche, condannando i migranti a morire nei centri di detenzione e nei campi di tortura di quel martoriato paese.

Una situazione che appare dunque senza uscita se la si affronta da questo punto di vista. Una situazione che può avere uno sbocco solo con uno sforzo di governance globale, attraverso misure che affrontino gli enormi problemi di cui sopra: restituendo, ad esempio, una prospettiva di sviluppo sostenibile a interi paesi del continente africano. Una situazione che deve però anche essere affrontata nell’immediato con misure urgenti, come i corridoi umanitari e l’evacuazione immediata di tutte le persone detenute nelle prigioni libiche (almeno in quelle ufficiali). Cose che in parte si stanno facendo grazie all’iniziative delle Chiese e con il contributo dell’Unhcr, ma che di fronte agli effettivi bisogni appaiono come gocce di buona volontà in un oceano di lentezza esasperante, a fronte di una mancanza di reale volontà politica da parte degli stati più forti e della comunità internazionale.

C’è poi la questione mediatica con i mezzi di informazione, che svolgono su questo tema un potente ruolo di megafono, ampliando ed esasperando le semplificazioni e le polarizzazioni. “O stai di qua o di là”, facendo tabula rasa della complessità di un momento storico drammatico, in cui ci sarebbe al contrario bisogno di analizzare i fenomeni con la necessaria lucidità. Sembra che tutto si debba ricondurre a mere posizioni ideologiche, che si alimentano strumentalmente a vicenda: da una parte la xenofobia e il suo figlio più degenere, il razzismo. Una visione che genera mostri, come ad esempio la proposta di costruire un muro tra il Friuli e la Slovenia.

Dall’altro, per opposta polarizzazione, una sorta di “migrantismo” per cui il migrante diventa appunto un totem e non più una persona. Ma le ideologie sono per definizioni rigide e nemiche delle idee, oltre che degli esseri umani in carne ed ossa; diventano poi il miglior brodo di coltura dell’intolleranza e poi ancora della violenza, nel momento in cui pretendono di essere le esclusive depositarie della Verità (mai come in questo caso una chimera).

La cosa peggiore, poi, è che nello scontro tra due visioni estreme la semplificazione più brutale – quella che si fonda sull’emozione più primitiva, ovvero la paura dell’altro – inevitabilmente vince sempre. Dobbiamo intervenire, e dobbiamo farlo ponendo la centro i diritti umani, non perché dobbiamo essere buoni ma semplicemente per una necessità di sopravvivenza: le migrazioni forzate contemporanee ci ricordano ogni giorno che camminiamo, spesso bendati, sull’orlo di un precipizio.

Medico e coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani (MEDU), un’organizzazione umanitaria indipendente che ha l’obiettivo di portare aiuto sanitario alle popolazioni vulnerabili in situazioni di crisi. Dal 2006 fornisce assistenza socio-sanitaria a rifugiati e migranti, sia in Italia sia sulle rotte migratorie dall’Africa subsahariana

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