Diritti

Sea Watch, nella vicenda mi ha colpito una figura minore ma rumorosa

Nella vicenda della Sea-Watch (se non fosse vera sarebbe un romanzo di fantascienza distopica), mi colpisce una figura minore, molto rumorosa, tragica e paradigmatica. E’ Angela Maraventano, parlamentare dal 2008 al 2013 per la Lega Nord, di origini siciliane, che abita e lavora a Lampedusa, artefice durante il quinquennio della proposta politica creativa di annettere l’isola a Bergamo. Ha l’età giusta per essere potenzialmente madre di Carola Rackete.

E’ lei che urla nella calura dei giorni scorsi davanti alla nave che ha forzato, forse con una manovra pericolosa, il blocco imposto dal governo italiano per impedire lo sbarco di 40 uomini e una donna da oltre due settimane ammassati come animali senza quasi più acqua potabile.

Lei che grida che l’Italia è invasa, che la capitana la vuole vedere in manette, in manette. Un auspicio che sarà poi ripreso e scandito da un gruppo di leghisti siciliani durante l’arresto, insieme agli auguri per uno stupro e altro ancora, come da repertorio ormai consueto.

Urla e smania, Angela Maraventano, interprete fuori luogo della tradizione meridionale delle prefiche dinnanzi al feretro, tanto che i carabinieri la invitano ad arretrare e calmarsi. Quando qualcuno le fa notare che sta elevando delle minacce “stanotte ci scappa il morto” ha scandito con chiarezza, si gira verso la telecamera e risponde: “E che problema c’è?”.

Questo succede quando le donne, siano esse madri o meno non importa (ma fa più impressione se c’è grande differenza di età), si mettono dalla parte del dominio contro le altre: incarnano le custodi del patriarcato.

E sono formidabili agenti della restaurazione, perché più degli uomini ci mettono passione, inesorabile e cieca determinazione a distruggere, odio viscerale senza ritegno. Si danno tutte completamente contro l’altra, diventando una tempesta che difficilmente un uomo saprebbe scatenare. Fanno paura, le custodi. Quelle create in tv per fare audience, le anziane che dileggiano le più giovani essendo impari il confronto estetico, come nella trasmissione Uomini e donne, ce le mostrò Lorella Zanardo ne Il corpo delle donne.

Ma l’intuizione riassunta nella parola ‘custode’ (una parola rotonda e piena anche di significati positivi e vitali) la devo ad una intellettuale siciliana, la scrittrice e drammaturga Beatrice Monroy, che sta portando in teatro nella sua città natale, Palermo, un lavoro presentato a marzo in anteprima ad Atzara, nell’altra isola italiana, come regalo per i 25 anni della rivista Marea.

Violetta della Traviata, Lady Macbeth, Giuditta ultima moglie di Barbablù nell’opera di Bela Bartok sono le tre donne custodi dell’ordine patriarcale che Monroy ha individuato per raccontare il danno provocato dalla complicità femminile con il potere, i meccanismi che portano alcune donne a serrare occhi, mente e cuore e a procedere su strade di distruzione e autodistruzione, sempre nel nome di un padre e delle sue leggi. Qui la custode si sbraccia e urla verso una donna giovane e composta, che si assume le responsabilità delle sue scelte, compiute nel nome dell’umanità e della pietas. Una figlia, Carola, svincolata dal servaggio alla legge del padre che offre alla donna che potrebbe essere sua madre una lezione di coraggio, silenzioso e sobrio. Spero che la madre della capitana ne sia orgogliosa, perché è di queste figlie che abbiamo tanto bisogno, e non di custodi.