La Colombia non riesce a raddrizzare il match che termina 2 a 1 per i padroni di casa. E la successiva vittoria contro la Svizzera non serve nemmeno a salvare la faccia. La Generación Dorada, la quarta nazionale del ranking Fifa, non è riuscita neppure a superare il girone eliminatorio. Nonostante Pelé e nonostante i bookmaker. L’intera spedizione rientra nel Paese abbracciata solo da amici e parenti e ai giocatori è suggerito di non abbandonare le proprie abitazioni. Così fa Escobar, rintanato in casa con la fidanzata, Pamela Cascal, che tra meno di un mese diventerà sua moglie. La clausura, però, schiaccia Andres che una sera ne ha abbastanza e fa un giro di chiamate. Vuole uscire, cerca la compagnia degli amici che tentano, invece, di dissuaderlo: “Qui i conflitti non si risolvono con una scazzottata. Andres, stai a casa” lo implora Maturana. Ma il difensore non ne vuole sapere: “Devo mostrare la mia faccia alla mia gente”. Mangiare, bere, ballare, magari ubriacarsi. Vuole vivere Andres. Gira un paio di bar, fino ad arrivare alla discoteca Pádova.

Qui non è chiaro cosa sia successo, le testimonianze si accavallano e smentiscono. Ciò che sappiamo è che all’interno del locale comincia a essere apostrofato pesantemente da alcuni individui. Sono i fratelli Gallón Henao, gente che per una vita ha dato la caccia all’altro Escobar, Pablo, militando nei Los Pepes e che ora ha invece abbracciato la causa di nuovi signori della droga. Lo insultano, gli danno del “frocio“, del venduto e gli ricordano che con quel suo dannato autogol ha fatto perdere parecchi soldi a tutta la Colombia, ma soprattutto a loro. Già, perché con i pronostici della vigilia a favore dei Cafeteros, a scommettere sulla Nazionale non è stata solo la povera gente, ma anche i narcos. Il mondiale era un’occasione troppo ghiotta per riciclare denaro. Facile, pulito, bastava passare il girone, un paio di vittorie in più e ci avrebbero guadagnato tutti. Milioni. Andres capisce che non è serata e lascia il locale, ma la discussione continua nel parcheggio dove ad aspettarlo trova dei sicari. Sei colpi, sei proiettili per strappargli la vita di dosso. E quelle grida – “Goal!” – lanciate a ogni sparo da chi compie la mattanza, per ricordargli quell’errore e disprezzarne anche la morte.

È il 2 luglio 1994 e se ne va così Andrés Escobar Saldarriaga. Con un paio di jeans blu addosso, una camicia rosa che si colora di sangue e le mani che gli coprono il viso. Ucciso per un autogol.

“Un grande abbraccio a tutti, per dirvi che (il Mondiale) è stata un’opportunità e un’esperienza fenomenale e rara, che non avevo mai provato nella mia vita. Ci vediamo presto perché la vita non finisce qui”

Estratto dalla lettera aperta che Andres Escobar inviò il 29 giungo al quotidiano El Tiempo

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Andrés Escobar, 25 anni fa l’autogol che fece scoprire al mondo i legami tra il calcio colombiano e i cartelli della droga

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