Da quando Homo Sapiens è diventato grande, inaugurando una personale era geologica, l’Anthropocene, gli estremi meteo sono diventati una delle maggiori sfide dell’umanità. Prima di tutto, egli deve comprendere meglio la fisica di questi fenomeni per anticiparne l’arrivo e l’evoluzione. Non ultimo, escogitare le misure più efficaci per fronteggiarli. Recita una canzoncina: “Il clima cambia. È cambiato. E cambierà”. Ormai nessuno confuta più che il clima stia cambiando; e che lo faccia con eccezionale rapidità. Parecchi si accapigliano invece sul peso dell’influenza antropica, emissioni e inquinamenti vari, anche se la pattuglia di chi nega ogni responsabilità dell’uomo si sta sciogliendo poco a poco, in sintonia con i ghiacciai himalayani e alpini.
Clima e meteo non sono sinonimi, ma le baruffe sui media li confondono, come accade in questi giorni riguardo all’ondata di caldo che ha colpito l’Europa occidentale. Del tempo meteorologico “tutti parlano ma nessuno fa niente al riguardo… (perché) il clima è ciò che ci attendiamo, il tempo è ciò che cogliamo”. Non è un paradosso campato per aria – peraltro attribuito a Mark Twain – giacché bastano un paio di mesi piovosi e freddini e c’è chi deride i climatologi. Non invochiamo ora il caldo cha fa, a supporto della scienza: il consenso scientifico sul clima che cambia non si basa sull’anomalia termica di questi giorni, ma sull’analisi di un assetto climatico che si sta consolidando da almeno 50 anni nel nostro pianeta. E lo studio dei dati storici, da quando abbiamo misure sufficienti e affidabili, segnala un progressivo aumento della frequenza di queste ondate, già a partire dalla metà del XX secolo.
Parlare di maggior severità è un azzardo, poiché la severità dei fenomeni estremi si misura su scale assai scivolose. Per esempio, molti tecnici sono convinti – a ragione – che la frequenza dei nubifragi e, soprattutto, dei disastri al suolo che essi producono stia crescendo. Ma il nubifragio italiano più severo è tuttora quello registrato a Genova nel 1970, quando cadde poco meno di un metro d’acqua in 24 ore.
La definizione delle hot wave che fu data all’inizio del 900 – un periodo di tre o più giorni in ciascuno dei quali la temperatura massima all’ombra raggiunge o supera i 32,2 gradi centigradi – appare però un po’ datata, se in Francia sono stati superati 45,9 gradi per la prima volta nella storia del paese. Non accadeva forse dai tempi di Galileo, l’inventore del termometro, e di Giuseppe Biancani e Robert Fludd, che introdussero poco dopo le prime scale di misura. Sicuramente da quelli di Fahrenheit, che rese affidabile quella misura, e di Celsius, che inventò la scala centigrada. Per la precisione, il record si è registrato a Gallargues-les-Monteux, nel dipartimento della Gard, venerdì scorso alle ore 16:20. E in gran parte della Provenza sono stati abbondantemente superati 45 gradi, come mi ha riferito un amico artista, di ritorno sconvolto da Cassis.
Se le alluvioni sono il fenomeno naturale che produce il maggior danno economico, le ondate di caldo sono il pericolo maggiore per la salute. Tra il 1992 e il 2001, negli Stati Uniti ci sono state 2.190 vittime dirette del caldo eccezionale, a fronte delle 880 causate dalle inondazioni e delle 150 provocate dagli uragani. Le onde di calore che colpirono il nostro continente nel 2003 provocarono circa 70mila decessi prematuri, 15mila nella sola Francia. Uno studio scientifico condotto per quattro città del Nord Italia (Bologna, Milano, Roma e Torino) dimostrò che l’eccesso di mortalità rispetto alla media era stato significativo: il maggior incremento si verificò a Torino (+33%) e Milano (+23%) e il minore a Bologna (+14%). Durante l’estate del 2003, in Spagna i decessi aumentarono dell’8%, ma quelli degli anziani tra 75 e 84 anni crebbero del 15%; del 29% quelli degli ultra-85enni. E nelle grandi metropoli, come Berlino, i tassi di mortalità aumentano significativamente durante le ondate di caldo più intenso rispetto alle regioni rurali circostanti, come il Brandeburgo.
Bisogna introdurre subito adeguate misure di adattamento, soprattutto nelle aree urbane, per mitigare gli effetti delle ondate di caldo, la cui frequenza aumenterà. La bolla termica dell’isola di calore, per via della calotta urbana causata dall’inversione termica, amplifica l’impatto del fenomeno. Senza contare il tremendo effetto di retroazione che viene innescato dalla climatizzazione artificiale: sembra una barzelletta, ma l’emergenza termica favorisce un maggiore uso dell’aria condizionata che, a sua volta, amplifica la bolla.
Gli esempi virtuosi non mancano. Per esempio, la città canadese di Toronto ha recentemente reso pubblica la propria strategia di resilienza, che illustra come la città pianifichi la gestione dei vari impatti del cambiamento climatico. In quel contesto: le inondazioni, le tempeste di ghiaccio e le ondate di caldo. A tale scopo, la città prevede nuove zone di raffreddamento intorno alla città, aree più ombreggiate, e un programma dettagliato di controllo a scala di quartiere.
Come sottolineano le associazioni ambientaliste più avvedute, la mortalità delle onde di calore è abbastanza modesta in Europa in confronto a quella dei paesi più caldi e poveri del Sud del mondo. E, soprattutto, minima rispetto a quella delle megalopoli che stanno crescendo a tassi forsennati. Nei paesi più poveri, dotati di infrastrutture civili e sanitarie meno avanzate, il riscaldamento globale rischia di provocare siccità sempre più prolungate, mettendo a repentaglio l’agricoltura. La conseguenza saranno carestie sempre più gravi, contraddicendo la convinzione che, nel nuovo millennio, la fame sia da considerare una sfida ormai vinta. E senza contare che questi fenomeni, ondate di caldo e siccità, potrebbero anche alimentare nuovi conflitti e attivare migrazioni di massa, oltre a innescare incendi di enormi proporzioni dal potente effetto di retroazione climatica.