Il rapporto tra l’avvocato Piero Amara e il procuratore Carlo Maria Capristo nasce a Trani, ma prosegue nel tempo arrivando anche a Taranto. C’era infatti anche Amara negli incontri per la “trattativa” fra la procura di Taranto guidata proprio da Capristo e i legali di Ilva in amministrazione straordinaria che nel 2017 portò alla proposta di patteggiamento che avrebbe dovuto consentire alla società gestita dai commissari straordinari Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi, di uscire dal maxi processo “ambiente svenduto“. Incontri che, dopo la notizia dell’iscrizione di Capristo nel registro degli indagati per abuso d’ufficio sulla base delle dichiarazioni rese proprio da Amara, potrebbero assumere una diversa chiave di lettura.
Amara, pur non avendo alcuna nomina formale, era sostanzialmente parte integrante dello staff legale scelto dai commissari straordinari dell’Ilva. Nei primi mesi del 2017, Amara prese parte agli incontri con il pool di magistrati ionici che avevano portato alla sbarra la proprietà della fabbrica, la dirigenza e anche la politica per le emissioni velenose dell’ex Ilva. Offrì, evidentemente, il suo contributo per raggiungere un accordo con la pubblica accusa. Un accordo che arrivò dinanzi alla corte d’assise che sta celebrando il processo ricevendo, tuttavia, il secco no dei giudici togati e popolari. Un pena troppo bassa rispetto alla gravità delle accuse secondo la Corte d’assise di Taranto: un rigetto che oltre a riportare nuovamente la società sotto processo divenne anche una batosta per la procura ionica che aveva dato il suo ok alla richiesta di patteggiamento.
L’accordo raggiunto dagli inquirenti guidati da Capristo e lo staff legale dell’Ilva prevedeva il pagamento di una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro, 8 mesi di commissariamento giudiziale e 241 milioni di euro di confisca quale profitto del reato da destinare alla bonifica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Il verdetto della Corte, però, fu lapidario: “A giudizio di questa Corte – era scritto nel provvedimento firmato dal presidente Giuseppe Licci e giudice a latere Elvira Di Roma – le pene concordate con i rappresentati della pubblica Accusa” sono “sommamente inadeguate e affatto rispondenti a doverosi canoni di proporzionalità rispetto alla estrema gravità dei fatti oggetto di contestazione”.
Nelle tre pagine che componevano l’ordinanza di rigetto, infatti, i magistrati spiegarono che la legge associa la possibilità per le società di patteggiare la pena ai reati contestati ai suoi dirigenti finiti sotto processo ed evidenziando che “l’accesso al rito speciale” è circoscritto “alle ipotesi di illecito meno gravi, e cioè quelle per le quali sia prevista l’applicazione della sola sanzione pecuniaria”. Una fattispecie che non riguarderebbe la vicenda penale in cui sono coinvolti gli ex proprietari e dirigenti dell’Ilva accusati di reati gravissimi come l’avvelenamento di sostanze alimentari: per questa ipotesi di reato, infatti, è prevista in caso di condanna una pena minima di 15 anni di carcere. A questo, inoltre, i giudici avevano aggiunto che il procedimento penale “ambiente svenduto” è “tutt’altro che definito nelle forme del patteggiamento” visto che è “attualmente in corso” ed è “appena incominciata la fase dell’istruzione dibattimentale con l’assunzione delle prove orali” e che in ogni caso non potrà concludersi con un patteggiamento per gli imputati.