Io, dopo equo e giusto processo, li manderei in galera e butterei la chiave.
Ho voluto riportare un solo “commento”, estrapolato dall’entusiasmante florilegio di argomentazioni apparse su tutti i siti che si sono occupati degli affidi illeciti di minori a Reggio Emilia, perché mi è sembrato il più rappresentativo per introdurre il mio ragionamento. Non è facile, infatti, con questo clima da caccia alle streghe e da sentenza già scritta, mantenere la “brocca” e argomentare con serenità in un Paese dove l’insulto è diventato lo sport nazionale e l’odio tout court ha sostituito quello di classe.
In tutti i commenti sono le “chiavi” da buttare all’esito di un processo che si vuole però equo e giusto, a farla da padrone. Giustizia ed equità compromesse dall’ostilità di un’opinione pubblica succube di un sistema mediatico che, se non ha inventato l’imbecille, gli ha messo in mano lo strumento per arrivare allo stesso pubblico del cattedratico, traghettandolo dai microfoni delle Radio Libere ai potentati che aprono i canali al trionfo della doxa sull’episteme. Una ridda di voci contrapposte che annichilisce il lavoro di anni di chi ha speso una vita per insegnare ad Hansel e Gretel a “infornare” la strega.
Parte da qui la mia prima osservazione: perché non ci si è accorti prima, quando i casi di affido erano ancora 30 o 40, che forse c’era qualcosa da approfondire? Perché aspettare di passare da zero a 99 casi di abuso in due anni in un territorio così ristretto? Si doveva per forza arrivare a scoperchiare la “pentola” dell’associazione a delinquere per scoprire i malvagi che hanno trasformato uno strumento di difesa dei bambini in uno su cui lucrare un profitto? Conosco solo i “fatti”, tutti da dimostrare, riportati dagli organi d’informazione; eppure sento che qualcosa che non mi torna e mi puzza di stereotipo di lotta alle organizzazioni di volontariato. Una guerra iniziata contro le Ong dei migranti e trasposta ora su tutti i terreni dove questo sia possibile.
Eppure, non sarebbe stato difficile scoprire che anche solo 40 bambini in un territorio limitatissimo erano davvero troppi, tenendo conto che tra il 1990 e il 2018 i minorenni residenti in Italia tra 0 e 17 anni son calati del 20%, da poco più di 12 milioni a 9.806.357, mentre i casi di bambini affidati erano, nel 2016, 26.615, di cui 14.012 a famiglie e 12.603 a strutture, con un’incidenza dell’1,4 su mille dei primi e dell’1,1 di quelli affidati a strutture. Semplice, no?
Sarebbe servito, anche, verificare i dati del ministero per scoprire che i casi di affido familiare per violenza domestica; abuso e/o sfruttamento sessuale; maltrattamento fisico e violenza assistita nel 2016 erano pari, rispettivamente al 5,9; 1,9; 1,4 e 1,3 per cento. Mentre per quelli affidati a strutture le percentuali passavano, rispettivamente, al 12,1; 2,8; 2,7 e 0,4 per cento. Avremmo scoperto che la prima causa di allontanamento era l’incapacità educativa dei genitori nel 24,4% dei casi. Dov’era la difficoltà di scoprire che sì, quel gruppo di ragazzi abusati era veramente troppo folto per un territorio così piccolo?
Dico questo perché si può pensare quel che si vuole sulla malvagità delle persone (tutta da dimostrare nelle sedi dedicate) ma quella Legge 4 maggio 1983, n. 184 prevede più anticorpi, rimedi e strumenti di controllo sull’operato delle strutture a tutti i livelli; da utilizzare, però, in un’ottica di etica della responsabilità individuale.
Cosa c’è di sbagliato in una Legge che all’articolo 2 afferma che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato a un’altra famiglia o a una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione”? Soprattutto se il successivo articolo 4 spiega come fare, sancendo che “l’affidamento familiare è disposto dal servizio locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici”. E cosa c’è di sbagliato a dire che “laddove manchi l’assenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore, provvede il Tribunale per i minorenni incaricato di vigilare sul provvedimento di affidamento”?
Nulla c’è di sbagliato nell’interesse del minorenne, al punto che le Commissioni d’inchiesta invocate da qualche ministro per indagare le atrocità diventano ridicole. L’errore è nella mancata vigilanza dei Tribunali e della Comunità educante, perché mi chiedo: dov’era a Reggio la Comunità? Dov’erano i vicini di casa delle famiglie a cui venivano portati via i bambini?
Per questo non mi bastano le dichiarazioni del procuratore Marco Mescolini quando sostiene che “ciò che è oggetto di quest’indagine sono fatti, non le critiche di metodologie professionali”, che invece sono quelle che hanno difettato finora. È nelle metodologie, infatti, che può annidarsi il male dei minori e, ancora, nei metodi di analisi dati per scontati; nelle diagnosi non verificate; nelle scelte dei Servizi accolte a priori e nelle decisioni dei Tribunali troppo spesso consenzienti, per brevità di tempo, a quelle soluzioni.
Reggio Emilia è solo l’ultimo caso in ordine di tempo di un sistema che non controlla. Più volte ho denunciato anche da queste colonne: dal caso di Federico Barakat, assassinato a otto anni dal padre durante un colloquio protetto a San Donato Milanese, al ragazzo 12enne, tolto alla “madre non collaborante” e affidato al padre mentre stava scontando “i domiciliari”.
Insomma, il sistema è traballante ma il principio e la ratio della Legge sono sani, e se eliminata di fronte all’ordalia collettiva e all’indignazione generale farebbe buttare la fatidica “acqua sporca col bambino”.