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Nanga Parbat, il torinese Carlo Alberto Cimenti conquista la vetta e scrive alla moglie: “Sono sdraiato in cima al mondo e piango rido e ti amo”

E così, con poche e semplici parole, Cala ha scritto il capitolo più incredibile dell’avventura alpinistica più social che mai. Già, perché con i messaggi giornalieri del marito, Erika aggiornava i profili Instagram e Facebook tenendo una cronaca streaming da quota ottomila metri. Un racconto di emozioni e sogni di vette e gloria, ma anche di silenzi e paure

di Kevin Ben Alì Zinati

Ottomilacentiventisei metri. Dove l’unico suono è quello del cuore che pompa nel petto, dove alzi un dito e zac, puoi bucare il cielo. Lì, in cima al Nanga Parbat c’è Carlo Alberto Cimenti, l’alpinista torinese che ha conquistato la nona vetta più alta della Terra, l’ottomila del Karakorum pakistano. Alle prime luci dell’alba italiana di oggi, giovedì 4 luglio, Cala, ha mandato un messaggio alla moglie Erika: “Sono sdraiato in cima al mondo e piango rido e ti amo”.

Sul tetto del mondo, Cala si è lasciato abbagliare dalla maestosità di un panorama concesso a pochi, poi ha preso il suo satellitare, si è sfilato i guanti nell’aria gelida e ha mandato un messaggino alla moglie, per condividere la vittoria. E così, con poche e semplici parole, Cala ha scritto il capitolo più incredibile dell’avventura alpinistica più social che mai. Già, perché con i messaggi giornalieri del marito, Erika aggiornava i profili Instagram e Facebook tenendo una cronaca streaming da quota ottomila metri. Un racconto di emozioni e sogni di vette e gloria, ma anche di silenzi e paure. Come per la valanga che ha mancato la tenda di Cala per un pelo. “Ieri sera ero in tenda – scriveva il 24 giugno – ho sentito il rumore di una valanga gigante. Era il crepuscolo e non si vedeva dove. Dopo qualche minuto sono uscito e ho visto una nuvola bianca che mi arrivava contro. Ho fatto appena in tempo a ripararmi dietro la tenda. Sono stato investito da un vento fortissimo pieno di neve. Pazzesco”.

Il Nanga Parbat, conosciuta anche come “montagna nuda”, è stato “conquistato” per la prima volta nel 1953. È considerata però una delle montagne più pericolose del pianeta. Lo scorso febbraio, nel tentativo di scalarlo aveva perso la vita un altro alpinista, Daniele Nardi. Con Cala, a raggiungere la vetta c’erano due alpinisti russi, Anton e Vitaly. Insieme domenica 30 giugno hanno lasciato il Campo Base, a quota 4200 metri, per arrivare poi martedì al Campo 4, a 7100 metri: qui si sono sistemati per qualche ora, hanno ripreso energie e poi hanno attaccato la cima. Ma la parte più difficile di un viaggio in cima al Nanga Parbat non è raggiungere la vetta, bensì rimettersi lo zaino pieno di stupore in spalla e fare marcia indietro. E difatti durante la discesa dagli 8126 metri, è arrivato il momento più terribile. “Ad un certo punto la traccia si ferma per più di un’ora – ha scritto Erika -. È fermo. Non si muove. Mio fratello Nicolò capisce immediatamente che sta succedendo qualcosa e mi allerta”. E nello stesso momento anche lo staff russo ha lanciato l’allarme: Anton stava scendendo a piedi, mentre Cala e Vitaly con gli sci, ma non rispondevano. Tutto è fermo, poi un nuovo squillo del telefono: “Siamo al C4, tutti dentro le tende. Domani ti racconto. Ho ricevuto un sacco di messaggi, scrivi un post per gli amici, dì loro che non posso rispondere ma che ho apprezzato. Mio amor, siamo arrivati in cima al Nanga Parbat, non ci credo ancora, lassù c’era una vista meravigliosa. Ora mi si chiudono gli occhi. Buonanotte”.

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