di Federica Pistono*
Nella letteratura araba più antica, precedente all’avvento dell’Islam, la poesia era spesso incentrata sul tema del deserto. Le odi dei poeti beduini del secoli passati, come Imru ‘l-Qays, l’infelice principe del deserto alla ricerca del proprio reame perduto, o Shanfara, il poeta bandito, ci consentono di gettare uno sguardo su un universo magico, in cui l’uomo appare in simbiosi con la natura, in tutto il suo splendore ma anche in tutta la sua spietatezza.
Dopo centinaia di anni, il legame arcano che lega il beduino al deserto non si è spezzato nonostante i massicci mutamenti sociali apportati dal progresso, anche se diversi scrittori arabi hanno talvolta rivestito questo ambiente di connotazioni negative. La solitudine, il silenzio, la capacità di cogliere il fascino delle sabbie e delle pietre sono elementi essenziali nella scrittura di Ibrahim al-Koni, l’autore libico che, nelle sue opere, ha scelto di porre il Sahara come protagonista assoluto. Dagli antichi poeti arabi sembra aver ripreso e rielaborato le descrizioni della natura, degli spazi liberi e immensi, aggiungendo però alla sua narrativa un motivo nuovo, l’elemento magico e soprannaturale.
Le sua prosa appare costantemente caratterizzata da una sovrapposizione di realismo e magia, creando romanzi mistici ricchi di simbolismo, ripreso tanto dalla tradizione letteraria araba quanto da quella tuareg, combinando realismo e incantesimo fino ad accostarsi, secondo alcuni critici, al realismo magico della narrativa dell’America Latina. Il deserto di rocce o di sabbie è un luogo affascinante e ostile al tempo stesso, in cui l’uomo si addentra per i motivi più diversi spesso senza più uscirne. È un simbolo di libertà, in nome della quale l’uomo deve talvolta rinunciare agli affetti, come pure è sinonimo di solitudine e talvolta di ascesi. Per poter sopravvivere, uomini e animali devono possedere un talismano: la pazienza, da esercitare costantemente.
La scrittura di al-Koni è colta, ricca di riferimenti alla Bibbia, al Corano, alle tradizioni dei Tuareg ma anche alla letteratura occidentale contemporanea, giacché lo scrittore, nato e cresciuto fra le sabbie del deserto libico, ha studiato a Mosca ed è vissuto in diversi paesi europei.
Il romanzo Pietra di sangue (Jouvence, 1998, trad. R. Del Cason e S. Pagani) narra la dolorosa vicenda di Assuf, un pastore solitario e vegetariano che gli insegnamenti spirituali del padre hanno sempre tenuto lontano dalla società civile e che, negli anni della vecchiaia, è diventato il guardiano delle pitture rupestri conservate sulle montagne del deserto libico. La sua esistenza è ricostruita dall’autore tramite una serie di flashback in cui i ricordi del protagonista si fondono con la memoria mitica delle popolazioni del deserto. La vita di Assuf si è svolta in simbiosi con gli elementi primordiali della natura, come il sole, l’acqua, la pietra e la sabbia, i contatti umani sono rimasti limitati ai genitori, il destino è da sempre legato a quello di due animali tipici del Sahara, il muflone e la gazzella, creature magiche e simboliche nell’immaginario beduino. Quando nel mondo di Assuf penetra il feroce cacciatore Qabìl, “il mangiatore di carne cruda”, l’equilibrio si spezza: l’intenzione del cacciatore di uccidere gli animali sacri per cibarsene è metafora della brutalità del progresso sull’universo antico e incontaminato del deserto. Nel finale, con la passione e la morte del protagonista, si condensa il significato del racconto, che indica come l’equilibrio del rapporto uomo-natura sia incrinato dalla civiltà moderna, con il suo rifiuto sprezzante e crudele del soprannaturale.
Anche nel romanzo Polvere d’oro (Ilisso, 2005, trad. M.Avino) il deserto è presentato come l’antitesi della città e del villaggio, luoghi del potere politico-economico che hanno imposto all’uomo nuovi equilibri, distruggendo quelli antichi. Protagonisti del romanzo sono un uomo, il giovane Ukhayyad, e un animale, un giovane dromedario pezzato, intelligente e bellissimo: i due crescono insieme, affrontando le difficoltà che la vita pone a entrambi. L’opera è la storia di un’amicizia uomo-animale talmente forte da trionfare su tutto il resto, perfino sul vincolo di affetto che lega il giovane alla moglie e al figlio, come pure è il racconto di un viaggio iniziatico che il protagonista compie in compagnia dell’animale, alla ricerca della conoscenza e dell’Assoluto. Ma chi infrange le norme sociali deve pagare per la propria ribellione e l’unica soluzione per Ukhayyad è la fuga dalla tribù e dal villaggio, in cui è la febbre dell’oro a sancire i rapporti fra gli uomini. Lo scontro tra l’avidità e la forza dei sentimenti conduce i protagonisti a un epilogo crudele, condannandoli a subire una morte atroce.
* traduttrice ed esperta di letteratura araba