L'uomo voleva aprire un parcheggio nella zona di Malpensa, a poche centinaia di metri da uno gestito dalla famiglia De Castro, il cui capostipite è ai vertici della locale di 'ndrangheta. Dove aver rifiutato un accordo per averli come soci, sono arrivate le pressioni: "Qualunque cosa viene fatta lì, vado e scasso tutto", viene fatto riferire. Il capo della Dda milanese: "È la prima volta che un imprenditore denuncia le pressioni"
Quarantotto ore. Tanto aveva impiegato la famiglia De Castro, il cui capostipite Emanuele è tra i capi della locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo, dopo il rifiuto di un imprenditore di entrare in società con loro, a far capire che allora non ci sarebbe stata alcuna nuova area parcheggio vicino all’aeroporto di Malpensa perché “sarebbe risultata in concorrenza” con quella da gestita dalla famiglia. “Altrove sì, ma a Ferno no”, aveva mandato a dire ad A. I., senza sapere che l’uomo – che ha chiesto a Ilfattoquotidiano.it di tutelarne la privacy – avesse installato una app sul suo smartphone per la registrazione delle chiamate in entrata e in uscita dal cellulare.
Le ha archiviate tutte, si è fatto coraggio ed è andato dai carabinieri per raccontare per filo e per segno la sua storia, ora parte integrante dell’ordinanza di custodia cautelare con la quale il gip del tribunale di Milano, Alessandra Simon, ha arrestato 34 persone, 13 delle quali accusate di associazione mafiosa per la ricostituzione della ‘ndrina legata alla famiglia di Cirò Marina. È proprio attraverso quelle telefonate e ai racconti che l’imprenditore ha più volte fatto a investigatori e inquirenti che la Dda di Milano ha accertato gli interessi della cosca attorno all’aeroporto di Malpensa, appetiti in crescita anche per la chiusura di Linate nei mesi estivi. Un ruolo fondamentale, riconosciuto dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci: “Una nota di speranza”, l’ha definita il magistrato antimafia.
I messaggi erano chiari, fatti arrivare tramite un consulente del lavoro, Giampaolo Laudani, che da un lato doveva partecipare all’affare e dall’altro secondo i magistrati ‘giocava’ per i De Castro: “Lui esplicitamente mi ha detto assolutamente no, diglielo… perché, anzi mi ha aggiunto: ‘Qualunque cosa viene fatta lì sono io che vado lì e scasso tutto'”. Lì, era a Ferno, a poche centinaia di metri da uno dei parcheggi controllati dai De Castro – di estorsione aggravata rispondono Emanuele e il figlio Salvatore, la sua compagna Vanessa Ascione e Laudani – che non volevano concorrenza. L’avventura di A. inizia nell’autunno 2018 quando insieme al consulente del lavoro, che a insaputa dell’imprenditore lo era anche dei De Castro, avvia attività propedeutiche alla realizzazione del parcheggio.
Dopo un “no” all’acquisto dell’area degli uomini legati alla ‘ndrina e aver valutato sconveniente l’apertura di un’area a Lonate per una “situazione monopolistica” accertata in un’altra inchiesta, l’imprenditore decide di realizzare la sua idea a Ferno. Sceglie il terreno da affittare e contatta un secondo imprenditore di sua conoscenza, M. G., pure lui parte offesa, per avere un partner commerciale. Ma Laudani, si legge nell’ordinanza, “riferiva del progetto ai De Castro, tramite Vanessa Ascione, convivente di Salvatore e titolare del parcheggio di Ferno in via Piave”. I De Castro si mostrano interessati e tentano di entrare nell’affare. È il 6 marzo 2019 e quel parcheggio sarebbe un buon investimento. Non hanno però messo in conto la valutazione dell’imprenditore che “declinava l’offerta dichiarando di aver appreso (…) che ‘i De Castro erano mafiosi e padroni del settore'”.
Una scelta che segnerà il destino del suo investimento. Perché quell’area sarebbe dovuta sorgere a circa 300 metri dal parcheggio riconducibile a De Castro rischiando così di incrinarne gli affari. E infatti appena due giorni dopo arriva il primo avvertimento. È Laudani a chiamare l’imprenditore: “C’è un piccolo problema”, gli dice. “Io ho parlato con una persona (…) Lui mi ha detto testuali parole ‘dì chiaramente a quella persona lì, che siccome avevamo già discusso, qualunque cosa lui fa in quelle zone lì, avrà solo problemi’, ok, ha usato proprio queste parole, anzi siamo al telefono io mi limito così. Quindi mi ha detto ‘ma diglielo proprio, eh'”.
Parole che secondo Laudani sarebbero riferite al secondo imprenditore coinvolto nella vicenda, M. G., conoscente dei De Castro. Ma che si ripercuotono anche sulla volontà di A.I.. “Mi ha detto che se vuoi parlarci non c’è problema”, aggiunge il consulente spiegando di aver “aperto per cercare di trovare un accordo insieme”. La risposta è categorica: “No, lasciamo stare. Beh, se no a noi non ci fa fare nulla?”. E Laudani conferma: “Mi sembra di aver così, sì…”. L’imprenditore ha già annusato l’aria: “Io con loro, non è per cattiveria perché ripeto io non li conosco, però non voglio rotture di coglioni e sarebbe stato gradito non avere le rotture di coglioni da parte loro…”.
Salvatore De Castro, intanto, dagli arresti domiciliari ha già fatto arrivare quello che il gip definisce un “pizzino” a M.G. nel quale “si lamentava di non avere saputo direttamente e per tempo del suo interessamento al parcheggio”. Con Laudani – che, secondo il giudice, “agiva a sua volta consapevolmente nel loro interesse simulando ‘terzietà'” – i De Castro sono ancora più espliciti: “Mi ha detto ‘quella persona sa già, questa zona non va toccata’”, spiega Laudani parlando con lo smartphone di A.I, che nel frattempo registra l’intera vicenda, chiamata dopo chiamata. L’affare tra l’imprenditore che ha denunciato, Laudani e M. G. alla fine sfuma, perché A.I. si rifiuta “di andare a chiedere il ‘permesso'”. Nel frattempo, il 27 marzo, entra nella caserma dei carabinieri, fa ascoltare le telefonate e inizia a raccontare tutto. È la “prima volta”, dice la procuratrice Dolci, che un imprenditore lombardo varca quella soglia per parlare delle pressioni ricevute dagli ‘ndranghetisti.
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