Jonathan ha poco più di trent’anni quando, l’11 gennaio 2016, vede il suo corpo debilitarsi a causa di una febbriciattola che non tende a diminuire. In quel periodo vive a Milano con il compagno Marius, studia Filosofia all’università e si mantiene insegnando yoga. Dato il malessere persistente che gli impedisce persino di uscire di casa, inizia a fare alcuni esami, consulta la rete per ottenere una diagnosi immediata ed attende mestamente la fine dei suoi giorni, convinto di avere una malattia incurabile. Fino a quando arriva l’esito definitivo e quella che per molti potrebbe essere una condanna, per Jonathan si rivela essere “un sollievo”: è sieropositivo. A partire dal giorno che ha cambiato la sua vita, l’autore di Febbre (Fandango, 256 pagine, 18,50 euro) ci accompagna indietro nel tempo e ci mostra la periferia in cui è cresciuto, Rozzano, il Bronx del Nord Italia, nella quale sono nati rapper, come Fedez e Mahmood, dove è possibile vedere circolare tossici non solo di giorno; famiglie, emigrate dal Sud, che si mescolano ai tamarri e delinquenti che diventano i boss dei quartieri caratterizzati da case popolari affittate a poco prezzo. Ma in questa realtà, fatta di violenze e soprusi, Jonathan non si riconosce. Lui è colto, balbuziente, sensibile, omosessuale e non ha nulla in comune con i suoi coetanei, spavaldi e temerari, e con la società che lo circonda fermamente ancorata a stereotipi e a pregiudizi dettati dall’ignoranza.
Indagando a fondo, un tema che ricorre spesso nel libro è legato all’atteggiamento maschilista e prevaricante che caratterizza gli uomini della periferia in cui vive Jonathan che, sin da bambino, preferiva trascorrere il suo tempo libero con le donne di casa o con le compagne di scuola, anziché giocare a calcio. Il suo mondo, infatti, era contornato da bambole, fiabe e serie tv che avevano come protagoniste eroine coraggiose. Ma non solo. Nutre sentimenti di odio e rancore anche nei confronti dei compagni che la madre va scegliendosi, dopo la separazione dal marito, ed assiste a violenze domestiche che lo traumatizzeranno per il resto della vita. Attenzione, però, perché l’autore non demonizza tutta la categoria maschile, favorendo le donne, anzi mette in luce figure positive, come Marius e l’infettivologo, che sono stati determinanti nel suo cammino.
L’autore, inoltre, abbatte ogni luogo comune e se durante il periodo dell’infanzia, la famiglia tradizionale, formata soprattutto dai nonni che lo hanno allevato, era la tana nella quale rifugiarsi e l’unica unione in grado di essere concepita; adesso non è più così perché assistiamo alla formazione, citando Marius, di una nuova famiglia dove l’elemento cardine è l’amore che anima due persone dello stesso sesso e che è la forza motrice che aiuterà Jonathan a salvarsi. In antitesi col padre navigato latin lover al quale temeva di somigliare, l’autore, che coincide con la voce narrante, preferirà essere se stesso sempre piuttosto che indossare maschere e vivere una vita fatta di apparenze e solitudini.
Il libro è anche il racconto della malattia, l’Hiv, che non è stata per l’autore l’occasione per perdersi nell’angoscia o nella più cupa disperazione, bensì l’opportunità per effettuare una profonda indagine su di sé e comprendere i propri limiti e i propri punti di forza. Jonathan, infatti, utilizza il termine “sollievo” e demolisce qualsiasi preconcetto che rende l’ammalato infermo e privo di ogni capacità decisionale sul suo corpo.
È nella decostruzione dei modelli standardizzati che emerge la potenza di questo libro, che riflette la contemporaneità senza tralasciare il passato memore di un’infanzia segnata e destinata a cambiare per risanare quelle ferite ancora dolenti. L’utilizzo di una lingua asciutta, a volte cruda, caratterizzata per lo più da frasi brevi e da parole isolate che alimentano un ritmo concitato, diventa una scelta obbligata per soffermare l’attenzione su tematiche attuali che meritano di essere trattate con delicatezza ma anche con fermezza. Jonathan Bazzi ha scelto di esporsi e la scrittura è diventata un elemento di condivisione per veicolare messaggi che hanno di per sé un valore politico: la difesa dei diritti della comunità Lgbt e il riferimento esplicito alla malattia porta a ridimensionare la paura del diverso e l’accezione negativa che si porta appresso.
“Davanti al pregiudizio reagire alzando la posta: meglio tacere? Lo sapranno anche i muri”, scrive l’autore. Dunque questo è il suo intento nel momento esatto in cui decide di scrivere la sua storia: riuscire a superare il senso di solitudine e l’atrocità di un dolore che lo ha accompagnato per anni, condividendoli con chi ha provato le medesime esperienze, e sublimarli in una piacevole catarsi.