Da un lato il governo italiano a celebrare amicizia e intesa con Vladimir Putin, dall’altro i giudici di Genova a mettere nero su bianco che la Russia “non assicura il rispetto dei diritti fondamentali”. Giovedì 4 luglio, nelle stesse ore in cui il capo del Cremlino visitava una Capitale tirata a lucido per l’occasione, la Corte d’appello ligure negava al suo governo l’estradizione di Rasul Makhmudov, 45enne attivista per i diritti umani nel Caucaso ricercato con l’accusa di estorsione. Le motivazioni sono nette: “Determinati soggetti, per la loro qualifica ed il loro status, in caso di ritorno nel loro Paese sono esposti al pericolo reale di pene o trattamenti inumani. Ad un concreto rischio di maltrattamenti, si aggiunga che è problematico ricevere garanzie in relazione alla possibilità di reagire e rappresentare eventuali violazioni dei propri diritti”. La Russia, insomma, non è un Paese sicuro per l’estradizione. E ciò nonostante tra Roma e Mosca esista un trattato – la Convenzione europea di estradizione del 1957 – che consente di presupporre i “gravi indizi di colpevolezza” altrimenti richiesti dalla legge italiana per acconsentire alla consegna. Nel motivare il diniego, chiesto dallo stesso sostituto procuratore generale Enrico Zucca, il collegio presieduto da Vincenzo Papillo si è dovuto quindi richiamare all’articolo 705 del codice di procedura penale, nella parte in cui esclude l’estradizione quando il procedimento nello stato richiedente non rispetta i diritti fondamentali o “se vi è motivo di ritenere che la persona verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori”.
Makhmudov, uomo d’affari originario del Daghestan, era stato arrestato il 21 febbraio a Bordighera in base a un mandato di cattura emesso dalla corte distrettuale di Mosca. L’accusa è di aver concorso, in qualità di istigatore, a un’estorsione da 25 milioni di dollari. Lui dichiara ai magistrati di essere fuggito lo scorso gennaio in Francia, dove ha presentato domanda di protezione internazionale a seguito di minacce di morte rivolte a sé e ai familiari per essersi esposto politicamente contro il governo. Racconta del proprio stretto legame con Alexei Navalny, l’attivista anti-corruzione punto di riferimento dell’opposizione russa, e dell’attività della propria associazione nel contrastare i brogli elettorali e nel sostegno finanziario ai dissidenti, definendosi vittima di accuse costruite a tavolino. E in effetti il sostituto pg Zucca, pur specificando di non poter valutare il merito delle prove raccolte da Mosca, sottolinea in requisitoria “l’assenza di dettagli ovvi e significativi” nella prospettazione dell’accusa nonché il fatto che gli elementi a carico dell’attivista consistano essenzialmente nelle dichiarazioni dei suoi presunti complici.
I giudici definiscono “convincenti e verosimili” le dichiarazioni di Makhmudov. “Che l’estradando abbia dopo minacce in gran fretta lasciato il proprio Paese e stia cercando di regolarizzare la propria posizione in Francia presentando domanda d’asilo è compatibile con una persona che sta temendo per la propria vita piuttosto che con la figura di un latitante criminale”, scrivono, riconoscendo valore a rapporti di fonti sia istituzionali sia non governative (il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, Amnesty International, Human Rights Watch) citati da accusa e difesa, “da cui risulta la possibilità dell’uso strumentale del procedimento penale nei confronti degli oppositori politici e soprattutto che nelle Repubbliche del Caucaso settentrionale ed in particolare in quella del Dagestan sono riscontrabili situazioni emblematiche di diffusa violazione dei diritti fondamentali”.
“Il Makhmudov ha documentato – scrive ancora il collegio – anche attraverso le indagini difensive, di trovarsi pienamente nelle condizioni per poter essere oggetto di un caso di denegata giustizia”. E in questo senso anche “la natura del quadro indiziario fondato su prove dichiarative rende fin da ora palese che il processo a carico del Makhmudov si potrebbe prestare ad interventi esterni, che non gli garantirebbero un’adeguata difesa”. La conclusione è che “alla luce della situazione individuale del Makhmudov, vi sono nel caso specifico motivi per ritenere che, se verrà accolta la domanda di estradizione, lo stesso subisca un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali e venga sottoposto alle pene ed ai trattamenti di cui all’articolo 698, comma 1 del codice di procedura penale”. E cioè “crudeli, disumani e degradanti”.