Lo hanno beccato dopo un’evasione e anni di latitanza dorata in Sudamerica. Si trovava insieme al figlio a Praia Grande, una località balneare nello Stato di San Paolo, in Brasile. Vivevano bene, nonostante i sequestri della giustizia italiana: avevano tre appartamenti con piscina ai piani alti di un edificio non distante dalle spiagge, erano protetti da un sistema di videosorveglianza e avevano una stanza segreta in cui nascondeva un’enorme quantità di soldi, al punto che gli investigatori hanno preferito pesarli anziché contarli: erano 20 chili. E poi tanta cocaina, la sua specialità, quella che secondo le sentenze faceva arrivare a quintali in Italia, agli intermediari della ‘ndrangheta in Calabria, Piemonte e Lombardia.

Si è chiusa lunedì mattina la grande fuga di Nicola Assisi, 61 anni, uno dei più importanti trafficanti italiani di droga, e di suo figlio Patrick, 36 anni. A mettergli le manette sono stati gli agenti della Policia Federal e i carabinieri di Torino che si erano messi sulle sue tracce dopo l’arresto di un altro figlio, Michael, avvenuto nel 2017 nel capoluogo piemontese. I tre Assisi erano sfuggiti all’operazione “Pinocchio”, condotta dal Gico della Guardia di finanza alla metà del giugno 2015, quando finirono in manette la moglie del broker di cocaina, Rosalia Falletta, e molti altri complici.

Era nella lista dei cento ricercati più pericolosi, Nicola Assisi. Lo cercava anche la Drug enforcement administration (Dea) statunitense. Da anni era l’uomo in grado di muovere tonnellate di cocaina da Brasile, Perù e Venezuela verso il porto di Gioia Tauro passando per gli scali spagnoli. Negli anni d’oro, stimava la Guardia di finanza, faceva arrivare fino a duecento chili al mese. Già negli anni Duemila aveva avuto guai con la giustizia per i suoi traffici con i narcos e il 6 novembre 2007, al termine del processo “Elianto”, era stato condannato a 14 anni e 4 mesi di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga. Una pena mai scontata: era latitante, dal 2008. 

Alcuni anni dopo la Guardia di finanza si è messa sulle sue orme seguendo le attività dei due figli maschi, Patrick e Pasquale Michael. Entrambi nel 2013 erano finiti in manette, il primo in Brasile perché scoperto con 60 chili di cocaina, il secondo a Valencia con trenta chili di polvere bianca, ed erano tornati liberi. Da lì è partita l’inchiesta del Gico, che monitora i flussi di denaro, gli acquisti di auto costose e biglietti aerei per la Spagna, ma anche le chat su Blackberry che Assisi e famiglia ritenevano imperscrutabili. Nel frattempo il 27 agosto 2014 all’aeroporto di Lisbona Nicola Assisi viene catturato per l’esecuzione del mandato di arresto europeo per la condanna del 2007.

Tuttavia la Corte d’appello di Lisbona, in attesa di una decisione della Corte suprema portoghese sull’estradizione in Italia, gli aveva concesso i domiciliari e lui ne aveva approfittato per scappare. In quel periodo i militari del Gico della Guardia di finanza di Torino stavano monitorando le conversazioni, quelle che poi hanno portato all’operazione “Pinocchio”. Alla metà del giugno 2015 erano scattate le manette.

La moglie di Assisi, il suo tuttofare Doriano Storino, più Antonio Agresta, già coinvolto nell’operazione “Minotauro” e altri finiscono in cella. Nicola Assisi e il figlio, invece, sono irreperibili e come loro anche alcuni brasiliani. Nel corso dell’operazione, però, nella villa degli Assisi a San Giusto Canavese, tra Torino e Ivrea, i finanzieri trovano un piccolo tesoro, tra cui ben 26 orologi di lusso, marchi come Rolex, Zenith, Richard Mille e non solo.

Nel giardino, sepolti, scovano 4 milioni di euro in contanti imbustati sottovuoto, come si fa per i salumi e i formaggi, e messi al sicuro dall’umido in una tanica di latte con del riso. Nonostante gli accorgimenti adottati per nasconderli, quei soldi sono finiti sul Fondo unico della giustizia. Tuttavia, visto il tenore di vita condotto a Praia Grande, quel sequestro non deve aver danneggiato molto le ricchezze di Assisi, una vita a metà tra i narcos sudamericani e gli ‘ndranghetisti calabresi.

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