L’altoforno2 dell’ex Ilva non garantisce la sicurezza per gli operai e quindi deve essere fermato. È stata la procura di Taranto a ordinare lo spegnimento dell’impianto nel quale morì Alessandro Morricella, 35enne morto il 12 giugno 2015, quattro giorni dopo essere stato investito da una colata di ghisa. Ed è proprio l’inchiesta aperta all’epoca dal pubblico ministero Antonella De Luca che, a distanza di oltre quattro anni, ha portato al fermo dell’impianto. In questi quattro anni, però, è accaduto tutto e il contrario di tutto: il sequestro della procura, il decreto del governo di Matteo Renzi che sostanzialmente concedeva la facoltà d’uso fino all’intevento della Consulta che ha dichiarato quel provvedimento di legge incostituzionale. Andiamo con ordine.

Dopo l’incidente mortale la procura mise i sigilli all’impianto perché privo dei dispositivi di sicurezza: un sequestro quindi motivato non da problemi legati all’inquinamento, ma alla sicurezza degli operai. Per il pm De Luca, i dirigenti dell’allora Ilva “omettevano di collocare e far collocare impianti, apparecchi e segnali atti a prevenire infortuni sul lavoro” e in particolare contestava l’assenza di protezioni “idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori presso l’Altoforno 2, nonché di qualunque altro strumento atto a garantire la sicurezza in caso di proiezioni di materiale incandescente dalla bocca di colata dell’altoforno nonché idonee strumentazioni volte al prelievo della ghisa per la misurazione della temperatura tali da limitare o garantire la relativa operazione che allo stato veniva svolta a distanza ravvicinata”. 

Non solo. Il magistrato all’epoca evidenziò anche “l’assenza di qualsivoglia barriera protettiva idonea a scongiurare eventi lesivi” che quindi, insieme alle altre condotte omissive avrebbero contribuito a determinare “la realizzazione dell’infortunio mortale occorso a Morricella Alessandro”. Ma in quel periodo delicato, l’Altoforno 2 era l’unica linea in grado di garantire la produzione dell’Ilva: bloccare l’Afo2 significare bloccare l’Ilva. E così il governo, guidato allora da Matteo Renzi, neutralizzò l’azione magistratura con un decreto che permetteva all’azienda di continuare a utilizzare l’impianto nonostante il rischio per gli operai.

Poco dopo il gip Martino Rosati, su richiesta della procura guidata all’epoca dal procuratore Franco Sebastio, sollevò la questione di legittimità e spiegando che il decreto violava diversi articoli della Costituzione. Il giudice Rosati censurò l’operato del Governo denunciando le lacune presenti nel provvedimento varato “in tutta fretta” solo per bloccare la magistratura. Il blocco di quella linea produttiva, infatti, avrebbe comportato all’epoca il fermo totale della fabbrica. “È oggi consentito per legge – scrisse il magistrato – che un’azienda, se d’interesse strategico nazionale, possa continuare a svolgere la propria attività anche quando tale esercizio sia suscettibile di aggravare o protrarre le conseguenze di un reato” soltanto “limitandosi a predisporre e comunicare un piano di interventi ad alcuni enti pubblici, che non possono nemmeno sindacarne contenuti ed attuazione”.

A marzo 2018, i giudici della Corte Costituzionale diedero ragione ai magistrati tarantini affermando che il Governo Renzi aveva tutelato esclusivamente la produzione e sacrificato il diritto alla salute e alla vita. A differenza del Salva Ilva varato nel 2012, in cui vi era un bilanciamento di diritti, nel 2015 “il legislatore non ha rispettato – scrivevano i magistrati della Consulta – l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita”.

Ora l’ultimo atto della vicenda. I vertici della fabbrica hanno chiesto la rimozione del sequestro che formalmente era ancora presente, ma il gip Pompeo Carriere ha rigettato la richiesta: una relazione del custode giudiziario Barbara Valenzano ha infatti chiarito che le prescrizioni imposte allora dalla procura non sono state realizzate oppure non sono adeguate e sufficienti a garantire la sicurezza degli operai. Da qui la notifica ad Arcelor per dare il via alle operazioni di spegnimento dell’altoforno 2. Un’operazione, quest’ultima, che ovviamente non sarà immediata: servirà seguire un cronoprogramma fino alla disattivazione dell’impianto in cui morì Morricella, sempre che nel frattempo non intervengano fatti nuovi. In tal senso, non è peregrino pensare che l’azienda, d’intesa con i commissari, presenti un’ulteriore istanza alla Procura di Taranto con cui prospettare l’adempimento delle operazioni necessarie alla messa in sicurezza.

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